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Salice: la ferita inguaribile del Femminile

Nome: esistono numerose specie di Salice, ma quella di cui ci occuperemo principalmente qui è Salix alba L., famiglia della Salicaceae.
Il latino salix, salicis risale alla radice indoeuropea *selik, passata poi nel greco heliké. La voce latina è collegata anche con l’irlandese saille.

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Botanica:
Il Salice è un albero deciduo che ama i suoli umidi e luminosi. Si trova spesso lungo corsi d’acqua e ha una crescita piuttosto veloce, anche se non raggiunge grandi altezze, fermandosi a un massimo di 25 metri, né è particolarmente longevo. Sua caratteristica è quella di avere un legno flessuoso, difficile da spezzare, infatti i suoi rami (soprattutto quelli della specie S. viminalis) vengono utilizzati per fare ceste e mobili. Un’altra caratteristica è quella di produrre numerosi polloni, fusti giovani che spuntano dalle radici dell’albero madre, dotati di grande vitalità, tanto che spesso basta trapiantarli in un suolo con il giusto tasso di umidità perché questi crescano e diventino nuovi alberi.

Il tronco del salice è robusto e spesso contorto, la corteccia grigioverde tende a fessurarsi e desquamarsi ed è ricca di tannini e di acido salicilico (che si chiama così proprio perché è stato individuato per la prima volta nella corteccia di quest’albero).
Le foglie del salice bianco sono lunghe e strette, simili a spicchi di luna, con la pagina superiore grigioverde e quella inferiore bianco avorio. Spuntano lungo i rami a volte contemporaneamente alla fioritura, a volte subito dopo, verso aprile. I salici sono piante dioiche, quindi ogni esemplare porta fiori o maschili o femminili e per l’impollinazione si affidano sia al vento (impollinazione anemofila) che agli insetti (i. entomofila). Sono frequentissime, in questo genere, le ibridazioni interspecie (salici appartenenti a generi diversi che si fecondano, dando vita a specie ibride).

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I fiori sono amenti penduli, e i fiori maschili sono i più belli e vistosi. Si formano a partire da gemme setose e argentate, sviluppandosi poi in amenti verdi simili a bruchi, con piccole scaglie che si aprono lasciando apparire gli stami. Gli stami sono lunghi e si presentano quasi sempre in coppie che recano nel mezzo una sacca di polline che attira le api, per le quali i fiori di salice sono una dei primi cibi dell’anno. Quando le antere (le “teste” degli stami) sono mature, scoppiano, liberando nell’aria nuvole di polline che, trasportate dal vento, cercheranno di raggiungere i fiori femminili di un altro salice, per fecondarli.

Il frutto del salice, come quello del pioppo, è simile a un batuffolo di cotone e nela forma somiglia a un bruco. I semi del salice, al fine di essere il più leggeri possibile, non sono dotati di endosperma, cioè non hanno il corredo nutritivo solitamente presente all’interno del seme (quella scorta di cibo che permette ai semi, in caso non trovino subito le condizioni idonee alla germinazione, di restare quiescenti ma  vitali anche per diverso tempo). Ciò fa sì che i semi del salice abbiano una vita piuttosto breve e che per germogliare necessitino di atterrare su terreni umidi dove possono radicare rapidamente.

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Fitoterapia:
Il Salice è una pianta lunare, e il suo processo caratteristico consiste nel condurre l’acquoso all’aereo, trasformando l’acqua in luce, l’eterico in astrale.

E’ noto per le sue proprietà antipiretiche, antireumatiche e antispasmodiche. E’ a partire dalla corteccia di salice che Piria scoprì, nel 1838, l’acido salicilico, per ossidazione della salicina. La salicina agisce nell’organismo umano come un prefarmaco: dopo la somministrazione per via orale, viene idrolizzata a livello intestinale in glucosio e saligenina che, una volta entrata nel circolo ematico, viene metallizzata in acido salicilico, che è un inibitori della sintesi delle prostagandine per inibizione della cicloossigenasi (quindi blocca il processo infiammatorio).

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Gli amenti hanno proprietà sedativa e ansiolitica. In particolare l’azione sedativa si manifesta a livello degli organi genitali: nei disturbi causati dalla dismenorrea, dove si ha una notevole attenuazione del dolore e delle turbe nervose, e nell’eretismo genitale, per via dell’azione anafrodisiaca. A queste proprietà si aggiunge una benefica azione tonico-stomachica che, migliorando i processi digestivi, contribuisce al benessere generale.

In flortierapia, il rimedio preparato con i fiori del Salice (Willow) fa parte del repertorio dei fiori di Bach ed è considerato il “fiore del Destino”, consigliato a coloro che non accettano la propria situazione, sentendosi continuamente insoddisfatti da ciò che hanno e attribuendo la colpa dei propri supposti fallimenti e della propria frustrazione agli altri. Willow aiuta a uscire dalle situazioni di autocompatimento cronico, stimolando l’assunzione di responsabilità e la capacità di accogliere gli altri, anziché esigere sempre qualcosa, non giudicando mai abbastanza ciò che si ottiene. Ci mostra che siamo artefici del nostro destino e ci dispone a un atteggiamento più materno verso il prossimo, più gioviale e saggio, permettendoci di uscire dalle spirali di lamentele, recriminazioni, vittimismo e rimuginamenti continui.

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Mitologia e storia:
Il Salice è il quinto albero dell’alfabeto arboreo dei Celti, che lo chiamavano saille. E’ considerato l’albero degli incantesimi, il quinto albero dell’anno, e cinque (V) era il numero sacro alla dea-Luna romana, Minerva. Il mese celtico del Salice va dal 15 aprile al 12 maggio e a metà di questo periodo cade la festa di Beltaine, celebre per essere la festa degli innamorati, per le sue baldorie orgiastiche e per la rugiada magica. Nell’Europa settentrionale il suo legame con le streghe è così forte che, come fa notare Robert Graves in La Dea Bianca, le parole witch (“strega”) e wicked (“malvagio”) derivano dallo stesso termine che anticamente indicava il Salice, e da cui deriva anche wicker (“vimini”).                I sacrifici umani dei druidi venivano offerti con la Luna piena in cesti di vimini, e le selci funerarie erano a forma di foglia di Salice.

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Nell’antica Grecia era sacro a Circe, Era, Ecate e Persefone, tutte rappresentanti aspetti oscuri, mortuari della Triplice Dea, e venerato dalle streghe. Nicholas Culpeper, nel suo The Complete Herbal, scrive che il salice “appartiene alla Luna”. Il Salice (heliké in greco) ha dato il nome al Monte Elicona, dimora delle nove Muse, in origine sacerdotesse orgiastiche della Dea.  Secondo Plinio, davanti alla grotta cretese in cui nacque Zeus cresceva un Salice. Arthur Bernard Cook, nel suo Zeus: a study in Ancient Religion, commentando una serie di monete provenienti dal sito cretese di Gortyna, avanza l’ipotesi che Europa, che vi è raffigurata seduta su un Salice, con in mano un cesto di vimini e stretta in un abbraccio amorosa con un’aquila, sia non solo Eur-opa , “colei dall’ampio volto”, cioè a Luna piena, ma anche Eu-ropa, “colei dai fiorenti rami (di Salice)”, anche nota come Elice, sorella di Amaltea, la capra che allattò Zeus neonato.

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Sono molteplici le ragioni per cui il Salice è da sempre stato considerato sacro alla Luna: è l’albero che forse più di ogni altro predilige l’acqua, il cui simbolismo è strettamente legato a quello della Luna, dispensatrice della rugiada e in generale dell’umidità, e signora delle maree; le foglie e la corteccia dell’albero, che contiene acido salicilico, sono il rimedio per eccellenza contro i dolori rematici, causati da eccessiva umidità e un tempo ritenuti opera di stregoneria. Sui Salici ama nidificare, sempre secondo quanto racconta Graves, un uccello simbolo della Dea, il torcicollo (Inyx torquilla, noto in inglese anche come “uccello serpente”), un migratore primaverile che sibila come un serpente, si sdraia sui rami, alza la cresta quando è adirato, ha il collo mobilissimo, depone uova di colore bianco (come la Luna), si nutre di formiche e ha sulle piume dei segni a V che ricordano le scaglie dei serpenti oracoli della Grecia antica. E’ noto come il serpente sia stato, fin dal Paleolitico, considerato una delle forme assunte dalla Grande Dea, legato in particolare al suo aspetto ctonio, ossia sotterraneo.
Inoltre il liknon, il setaccio utilizzato anticamente per vagliare i cereali, era fatto di Salice. E’ su vagli di Salice di questo genere che le streghe di North Berwick, secondo quanto esse stesse confessarono a Giacomo I, avrebbero fluttuato durante i loro sabba.
Presso i Romani il Salice si chiamava salix, ma essi indicavano più frequentemente con il termine vimen, viminis (“vimine”) quelle varietà (S.alba, trianda e purpurea) i cui rami flessibili, decorticati dopo una lunga macerazione, venivano utilizzati per la fabbricazione di cesti, panieri e legacci d’ogni tipo. Vimen è anche all’origine del nome di uno dei sette colli di Roma, il Viminale, così chiamato perché un tempo era ricoperto di Salici.

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Elena Arcangeli, La sedia di vimini

La credenza di origine greca secondo cui l’albero avrebbe favorito la castità, ispirò un farmaco per calmare l’ardore sessuale. Nel XVIII secolo si raccomandava di assumere amenti di Salice alle donne sessualmente troppo esuberanti.
Anche presso il Cristianesimo delle origini il Salice era considerato una pianta che portava sterilità, o comunque che spegneva il desiderio. Forse basandosi sul falso stereotipo (già comune ai tempi di Omero, che nell’Odissea definisce il Salice come l’albero “che perde i frutti”) che il Salice faccia cadere i frutti dai rami prima che questi siano maturi – quando invece oggi si sa bene, e del resto sarebbe stato facile osservare anche in passato (ma è risaputo che a volte i pregiudizi impediscono di vedere le cose per ciò che veramente sono) che i frutti del Salice si staccano presto dalla pianta semplicemente perché maturano in fretta-, ma insomma, forse per questo il Salice fin dall’antichità fu considerato dagli uomini come albero legato alla castità, sia in senso negativo (assenza di discendenza) sia in senso positivo (ascesi e purezza). Sono numerose le occorrenze in proposito nei testi degli autori cristiani delle origini e del Medioevo.
La figura del Salice si trova dunque a oscillare, nella tradizione, fra simbolismi ambivalenti, se non proprio opposti: albero lunare, stregonesco, simbolo di un femminile indomabile e oscuro da un lato, e albero della castità dall’altro.

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L’energia del Salice:
L’energia del Salice è molto forte e complessa. Quest’albero ci parla del Femminile, ma in maniera ambivalente e misteriosa. Più che parlare a noi, quando ci poniamo in ascolto, sembra oltrepassarci per comunicare direttamente con le acque del nostro inconscio, mescolandosi con esse, sondandole con le sue radici fradice e sensibilissime e portando alla luce della Luna parti di noi che non siamo solite frequentare, trasformando in aria e liberando emozioni che teniamo segrete addirittura a noi stesse.

Il Salice è un albero legato all’acqua e alla luce, alla trasformazione delle emozioni in pensiero, al passaggio dalla sfera eterica a quella astrale. La sua energia esplora e libera, ma in un modo inconsueto per molti e spesso frainteso, soprattutto presso le società patriarcali: un modo profondamente femminile.
Il Salice è impregnato di contenuti inconsci, e il suo legno trattiene da millenni il dolore e il pianto per un femminile incompreso, temuto e quindi sottomesso. Rappresenta una parte (tanto delle donne come degli uomini) estremamente potente, legata alla capacità di flettersi, di portare a galla dal profondo e infine di accogliere. E’ un albero notturno (anche se ama il Sole e in lui risplende magnificamente), controparte vegetale della Luna, che influenza i liquidi corporei e gli organi genitali.

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Il Salice, nell’esperienza che mi ha donato, con il suo tronco in cui spesso si aprono cavità, fessure, buchi, rappresenta la ferita inguaribile del Femminile: il dolore irrimediabile dell’incomprensione e della sottomissione, che però è al tempo stesso caratteristica imprescindibile dello sciamano. Ogni sciamano infatti, tradizionalmente, deve i suoi poteri a una “unhealed wound”, una ferita inguaribile appunto, apertura che gli permette di comprendere il dolore del mondo e viaggiare in altre dimensioni per recuperare i pezzi delle anime degli altri. Il Femminile più profondo dentro ognuno di noi ha subito nel tempo gravi danni, è stato ingiuriato quasi a morte, travisato, umiliato, disprezzato e dileggiato. Il tutto per paura e ignoranza.

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Il Salice ci mostra come questa ferita insanabile, che causa sofferenza e risentimento, spesso talmente inconsce che l’apparenza è totalmente opposta, possa divenire un incavo nel nostro tronco in cui dare rifugio a piccoli animali. Un portale attraverso cui scendere nelle nostre acque per esplorare mondi lunari. Una fessura da cui assorbire la luce del Cosmo. Senza questa apertura, la magia non sarebbe possibile. Non sarebbe possibile la trasmutazione di acqua in luce, e invece è proprio questo che il saggio, forte, meraviglioso Salice ci vuole insegnare. Ci dice: “Crescete intorno alla vostra ferita, portandola come un gioiello. Esplorate mondi diversi e metteteli in comunicazione. Piegatevi, accogliete, niente potrà distruggervi. Nemmeno l’incomprensione. Nemmeno il dolore più grande. Le lacrime divengono luce. Vi offro la mia energia per mettere a tacere l’urlo dell’infiammazione che si espande attorno alle vostre membra, irrigidendovi le articolazioni e impedendovi di danzare. Accettate la ferita. Onoratela. E’ proprio attraverso di essa che potete entrare in contatto con le vostre antenate, le più antiche delle quali erano ancora riconosciute come dee. La ferita è una sola, e ci accomuna tutte. Lamentarsi non serve, e nemmeno serve ribellarsi alla propria natura di vasi portatori di acque magiche. Salite sulle mie fronde e vi farò volare fin sulla Luna, insegnandovi la meraviglia del femminile che sopravvive e accoglie e protegge e trasforma, e perdona, anche. Perché è più forte. Conosce profondità in cui i più temono di arrivare. Ma è da laggiù che passa la via per la Luna.”

Essendo legato alle acque e all’inconscio, ai poteri medianici, il Salice è un albero magico, e la sua energia, lasciata entrare nelle nostre vite, darà luogo a interessanti episodi di sincronicità, risvegliando soprattutto l’archetipo della Strega, ovvero la Vecchia Madre, la Nonna: un femminile antichissimo e tremendamente saggio, in cui la donna supera se stessa e diventa natura, paesaggio, albero…

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Bibliografia:
-Adams M., The Wisdom of Trees, Head of Zeus Ltd, London 2014
-Angelini A., Il serto di Iside, Vol. I e II, Kemi, Milano 2008
-Bosch H., Satanassi L., Incontri con lo Spirito degli Alberi, Humus Edizioni, Sarsina 2012
-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991
-Campanini E., Dizionario di fitoterapia e piante medicinali, Tecniche Nuove, Milano 2004
-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013
-Chiereghin P., Farmacia verde, Edagricole, Milano 2011
-Cook A.B.,  Zeus: a study in Ancient Religion, Cambridge University Press, London 1925 (versione digitale)
-Culpeper N., The Complete Herbal, Thomas Kelly, London 1835 (versione digitale)
-Frazer J., Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2012
-Goethe J.W., La metamorfosi delle piante, Ugo Guanda Editore, Parma 1983
-Graves R., La Dea Bianca, Adelphi, Milano 2001
-Graves R., I miti greci, Longanesi, Milano 1992
-Hageneder F., Lo spirito degli alberi, Crisalide, Latina 2001
-Motti R., Botanica sistematica e forestale, Liguori Editore 2010
-Paterson J.M., Tree Wisdom, Thorsons, London 1996

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Pino, la nascita del Cosmo

Nome:

Il nome del genere Pinus è di origine controversa, anche se pare plausibile possa derivare dal greco pitys, latino pinus, nomi che hanno tutti origine nel sanscrito pitu, resina. Altre ipotesi indicano che possa derivare dal latino pix, che significa “pece” o “resina”, essudato della pianta, o dagli epiteti di radice indoeuropea pic, pungere con riferimento agli aghi, oppure pi, stillare, sempre con riferimento alla resina; infine, forse dal celtico pen, testa, alludendo alla forma della chioma.

Esistono centinaia di specie di Pinus, ognuna con tratti essenziali ma tutte con alcuni aspetti di forma e carattere in comune. Le specie a cui faccio riferimento qui di seguito sono Pinus sylvetris L. (o Pino scozzese) e  Pinus pinea L. (o Pino domestico), diffuse la prima da Gran Bretagna e Irlanda fino alle montagne della Spagna e all’Asia orientale, la seconda tipica dell’area mediterranea. Entrambe le specie, in ogni caso, godono di un vasto areale di crescita, trattandosi di alberi in grado di sopravvivere anche in condizioni sfavorevoli e su suoli poveri. Uno dei tratti salienti del Pino, infatti, è la resistenza.

Altre specie diffuse sono Pinus halepensis MIll., Pinus nigra J.F. e Pinus pinaster Ait. (o Pinus maritima Lam.).

Aus: J. Sturm's Flora von Deutschland

Aus: J. Sturm’s Flora von Deutschland

Botanica:

Le Conifere detengono il record come una delle famiglie di piante più antiche, dirette discendenti delle foreste primeve che prosperavano sulla Terra molto tempo prima della comparsa delle latifoglie. Il Pino è un albero che può raggiungere altezze anche di 30 metri, a seconda del suolo in cui cresce, e che può raggiungere i 600 anni di età. La sua lunga radice fittonante gli permette di resistere ai venti forti.

Nelle foreste naturali, i Pini crescono piuttosto radi permettendo alla luce di penetrare e raggiungere il suolo, creando fasci di luce e una magica profondità.

Si ritiene fosse il Pino, all’interno della famiglia delle Conifere, la specie prevalente nel Periodo Boreale, al termine dell’Era Glaciale.

Le foglie del Pino crescono in coppie, e questo lo distingue dal Tasso e dall’Abete, le cui foglie singole sono disposte a spirale lungo i rami; e dal Larice, le cui foglie crescono a ciuffi.

Quando i giovani Pini crescono, i loro rami più bassi cadono dando luogo al caratteristico tronco dritto e spoglio incoronato di rami, aghi e pigne.

Se il Pino si trova in uno spazio aperto e ben illuminato inizierà a riprodursi dopo 20 anni. Se l’albero si trova invece in un suolo paludoso o circondato da numerosi altri alberi aspetterà, per dare inizio alla riproduzione, fino ai 40 anni.

Spesso ai Pini piace crescere in compagnia della Betulla. Entrambi gli alberi condividono la simbiosi con il fungo Amanita muscaria. Anche altri funghi, quali il Boleto, amano la compagnia del Pino, che provvede inoltre cibo e riparo per molti animali selvatici come volpi e scoiattoli, e uccelli come il regolo dalle piume verde oliva.

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La corteccia del Pino è di colore rosso ramato, soprattutto in alto, dove è sottile, liscia e luminosa. Alla base dell’albero invece può diventare spessa, scura e ruvida.

Durante la crescita annuale del Pino ogni nuovo getto somiglia a una candela che cresce verticalmente verso il cielo. Al termine di ogni ramo cresce una grossa gemma resinosa avvolta da scaglie rosa e brune coperte da resina biancastra. In primavera la gemma si allunga e le scaglie cadono una ad una rivelando coppie di foglie, gli aghi, che si dividono a partire dal vertice. I rami crescono da gemme poste in cerchio al di sotto della gemma apicale.

Gli aghi del Pino sono rigidi, piatti in alto e cilindrici in basso. Sono di colore verdeblu e il blu deriva dallo strato di cera che cresce naturalmente sul fogliame. Le foglie di Pino vivono fino a tre anni e poi cadono ai piedi dell’albero, rimanendo sempre in coppie. Gli aghi appena nati sono verdi, ma diventano verdeblu nel giro di una stagione. La forma degli aghi permette al Pino di conservare l’acqua limitandone la perdita. Questo significa che il Pino non dipende troppo dall’umidità del suolo e può pertanto crescere in suoli sabbiosi.

All’inizio della primavera il Pino produce sia fiori maschili che fiori femminili (monoico). I fiori  maschili sono gialli e soffici e crescono alla base dei nuovi getti. Ogni fiore è formato da stami disposti a spirale e ogni stame sostiene due sacche polliniche. Il polline del Pino è estremamente abbondante e quando viene disperso nell’aria ogni cosa intorno si ricopre di una polvere gialla. Ogni grano di polline ha una sacca d’aria su su ciascun lato, e questo gli permette di volare. Non appena hanno rilasciato il polline i fiori maschili muoiono e cadono dall’albero.

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Il fiore femminile è minuscolo, rosso, e somiglia a una gemma che cresce in cima al nuovo getto. E’ costituito da scaglie appuntite, rosse e carnose disposte a  spirale. Il fiore femminile cresce su una specie di piedistallo e si piega verso l’alto in modo che il polline possa scivolare tra le scaglie e raggiungere gli ovuli alla base. Gli ovuli emettono una sostanza mucillaginosa che cattura e porta giù il polline. Dopo che la fecondazione è avvenuta le scaglie si ispessiscono e vengono sigillate dalla resina.

Per la primavera seguente, il fiore femminile si è fatto più grosso, ma è solo verso la fine della seconda estate, o anche nella primavera seguente, che le scaglie si aprono al tepore dell’aria rivelando piccoli semi marroni. Questi semi sono dotati di un’ala delicata e quando si staccano dal cono sono catturati dall’aria e viaggiano ciascuno verso la propria destinazione, fermandosi alcuni abbastanza vicino alla pianta madre, altri molto più lontano.

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Le pigne si aprono o si chiudono a seconda del tasso di umidità dell’aria. Si aprono solo quando il clima è secco così che i semi alati possano disperdersi e non piombare ai piedi dell’albero  madre per via dell’umidità. Le pigne vuote cadono dai rami in autunno, a volte dopo due anni e mezzo. Su uno stesso Pino si possono trovare fino a tre generazioni contemporaneamente, anche sullo  stesso ramo, dove le pigne nuove, quelle fertilizzate e le pigne vuote stanno appese una dietro l’altra.

L’epifisi, o ghiandola pineale, fu chiamata così da Cartesio per via della sua forma, che ricorda quella del frutto del Pino. L’epifisi regola il ciclo sonno-veglia del nostro organismo grazie alla produzione dell’ormone melatonina, e reagisce agli stimoli di luce e buio. Secondo la filosofia indiana, la ghiandola pineale è connessa al nostro settimo chakra, quello che si apre in cima alla nostra testa collegandoci al Cosmo e ai suoi ritmi.

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Mitologia e storia:

Il Pino è governato dall’energia di Saturno, che rappresenta l’archetipo del Padre e dell’Eremita, di colui che contiene, regola, dona forma e struttura, sorregge.

Nella mitologia il Pino è l’albero in cui viene trasformato Attis, protagonista insieme a Cibele di una delle storie più intricate del mondo mitologico, ma anche più potenti. Il modo in cui lo sentivano gli antichi ci dice molto sulla sua energia. Il mito di Attis è antichissimo, rappresenta movimenti primordiali inconsci e risale ai tempi in cui dio era una donna, la Grande Madre Terra. Riporto qui di seguito un brano tratto dal “Mitologia degli alberi” di Jacques Brosse, un libro bellissimo. Brosse spiega:

“(…) Questa storia comincia con quella di sua madre Cibele. Da una pietra fecondata dal seme che Zeus aveva lasciato cadere sulla terra durante il sonno nacque un mostro ermafrodita di nome Agdistis. Spaventati, gli dei decisero di castrarlo e così Agdistis diventò la dea Cibele. Il sangue sparso fece spuntare dalla terra un mandorlo, o un melograno. Mangiando una mandorla, o mettendosi in seno una melograna matura, proveniente dall’uno o dall’altro di quegli alberi, la figlia del fiume Sangario, Nana, rimase incinta e concepì Attis. Vergognandosi di quel figlio che non aveva padre, Nana lo abbandonò in riva al fiume dove una capra lo nutrì. Fu lì che Cibele-Agdistis lo rinvenne in mezzo alle canne. Crescendo, il fanciullo divenne così bello che Agdistis se ne innamorò. Ma, sia che egli volesse sfuggire a quell’amore incestuoso sia che i suoi genitori preoccupati (ma di quali genitori poteva trattarsi?) lo mandassero lontano, fatto sta che il giovane arrivò a Pessinunte, dove doveva sposare Atta, la figlia del re. Mentre si celebravano le nozze, Agdistis, che inseguiva il suo amato, entrò nella sala del banchetto. Immediatamente, l’assemblea è colta dalla follia: il re si mutila, Attis fugge, si castra sotto un pino e muore. Agdistis, disperato, tenta di resuscitarlo, ma Zeus si oppone e acconsente solo a che Attis, trasformato in pino, rimanga sempre verde e incorruttibile, quindi immortale; gli unici segni esteriori di vita in lui saranno la crescita dei capelli e l’agitarsi del mignolo. Alcuni autori aggiungono che Cibele avrebbe portato il pino nella sua caverna per piangere il figlio, scena che veniva raffigurata nelle feste in onore di Attis. Un’altra versione della morte del dio, riferita da Pausania… (…)

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In questa matassa così intricata che non si sa più chi è chi, dobbiamo adesso tentare di sbrogliare i fili. Si sarà certo notato che essa contiene almeno un fattore già noto, l’abbandono del dio da parte della madre all’atto della nascita, elemento già rilevato nell’infanzia di Dioniso e dello Zeus cretese, con i quali Attis ha un altro punto in comune: è nutrito da una capra. L’abbandono è caratteristico delle divinità maschili dell’albero, generate dalla Terra Madre, che si chiamino esse Rea o Semele o Cibele. Quest’ultima, però, ci è presentata qui come prodotta dalla castrazione di un essere in origine ermafrodita, amputazione originaria che appare per questo contagiosa. Anzi, essa costituisce addirittura il motivo essenziale del mito.

Queste mutilazioni in serie non hanno tutte lo stesso significato. Cbele è in Frigia la Grande Dea, la Terra Madre, equivalente in Grecia di Gea e di Rea. Nella teogonia greca, come in altre teogonie, la divinità primigenia è necessariamente bisessuata, perché genera da sola, estrae da sé e senza aiuto gli altri dei e il mondo, che sono suoi figli E’ “la totalità primordiale, che racchiude tutte le facoltà, perciò tutte le coppie di opposti”. Perciò, quando Gea emerge dal Vuoto, dal Caos primordiale, insieme a lei nasce l’Amore, che qui è il desiderio di generare, di creare altri esseri. E Gea mette al mondo “un figlio simile a sé, Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno”. Nei termini utilizzati da Esiodo, troviamo la figura originaria, il prototipo delle dee che generano un figlio affinché diventi il loro amante, padre dei loro futuri figli, appunto perché quel figlio non ha, non può avere, un padre. IN origine la divinità è sola. Il suo atto creativo è bipartizione di sé, bipartizione che può essere intesa come automutilazione.

Così è stato, all’origine dei tempi, per Cibele nella mitologia frigia. Se, nella versione greca della leggenda, sono gli dei che decidono di castrarla, ciò dipende solo dal fatto che i Greci, avendo interrato Cibele nella loro mitologia, l’hanno posta alle dipendenze degli dei dell’Olimpo. Nella cosmogonia primitiva è la stessa Cibele che, essendo sola, si castra, e il prodotto di tale mutilazione altro non è che la Creazione..

La nascita di Cibele conseguente alla spargimento del seme di Zeus sulla pietra rappresenta peraltro una forma assolutamente arcaica della cosmogonia: “la roccia è il simbolo più antico della Terra Madre” e “la pietra grezza è considerata androgina, laddove l’androginia restituisce la perfezione dello stato primordiale”. IN quanto roccia, Cibele è vuota, come il ventre di una madre, è una caverna. Sotto terra, in una grotta, si compiono i suoi riti segreti. La caverna primordiale dalla quale vengono alla luce gli esseri viventi è anche il luogo dove si sotterrano i morti; i morti vi entrano e i vivi ne escono. E’ un microcosmo che riassume un macrocosmo, in cui il suolo corrisponde alla Terra e la volta corrisponde al Cielo, è il serbatoio tenebroso delle energie telluriche, il santuario ctonio. Dalla roccia, androgina e sterile, nasce la terra (femminile), risultato del sua sfaldamento, dal quale soltanto possono nascere e crescere i vegetali che la renderanno fertile mediante l’humus, nato a sua volta dalla decomposizione delle loro foglie. Nelle mitologie, lo stato primigenio della vita sulla terra è rappresentato dall’associazione della roccia con l’albero. La pietra sacra, venerata come “casa di Dio”, centro, ombelico del mondo, come a Delfi l’omphalos, è sede della potenza divina, ricettacolo della vita non ancora manifesta, della quale espressione prima è l’albero cosmico. L’albero appare come figlio della pietra.”

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Dietro al Pino ci sono queste energie: energie legate all’impulso primordiale d’amore che ha portato alla nascita del Cosmo. Il mito ce lo mostra legato alla Madre Terra, e all’unione primordiale degli opposti, maschile e femminile. Il Pino è infatti un albero ermafrodita, e una delle specie più antiche presenti sulla Terra. Non c’è da stupirsi che gli antichi lo vedessero come simbolo dell’amore tra madre e figlio, divenuti amanti, in un cerchio che può venire spezzato soltanto dall’estremo sacrificio, la morte, che però genera vita immortale.

Nella versione greca, Agdistis, il dio-pietra ermafrodita, è un presentato come una creatura mostruosa, che Zeus amputa per disgusto. Questo era infatti come la società patriarcale rappresentava la Grande Dea delle religioni del Neolitico. La sua potente femminilità spaventava terribilmente i Greci, così come le altre società patriarcali dell’epoca, che sottomisero la civiltà matrifocale diffusa nella Vecchia Europa. Perciò la dipinsero come un mostro.

In realtà però, al di sotto della maschera, possiamo ancora leggere parti di una vicenda sacra, che rappresenta l’eterno rinconrrersi ed amarsi del principio maschile e di quello femminile presenti entrambi in ognuno di noi, dell’irresistibile impulso alla creazione che nasce da dentro e che per nascere ci chiede il sacrificio di una parte di noi, per poi riunirci nuovamente, in un’altra forma.

Il ritmo di questa storia ricorda una spirale, e il Pino, col suo tronco che si staglia verso il cosmo e la sua radice fittonante che penetra nelle profondità della Terra, è il simbolo saturnino di forze potenti e contrapposte, che in lui si fondono in un’alchimia purificatrice che dà luogo alla resina, il pianto di luce del Pino, la sua essenza cosmica.

I cicli biologici del Pino seguono ritmi lenti, planetari, e sui suoi rami più generazioni di frutti vivono una accanto all’altra, impregnandosi di informazioni cosmiche.

Fitoterapia:

L’olio essenziale di Pino è contenuto in numerose specialità fitoterapie. La parte della pianta utilizzata è costituita dalle foglie aghiformi, che nella medicina popolare venivano usati per fomente, mettendoli nell’acqua bollente o addirittura nell’acqua calda del bagno. L’essenza sprigionata infatti, pur esigua come quantità, penetra facilmente attraverso la cute dove esplica un effetto balsamico, fluidificante le secrezioni, sedativo della tosse e antinfiammatorio.

Il Pino e i suoi derivati sono utilizzabili in virtù dei suoi numerosi costituenti chimici, rappresentati sostanzialmente dall’olio essenziale, ricco in monoterpeni: alfa-pinene, beta-pinene, limonene, acetato di bornile, 1.8 cineolo (eucaliptolo) e canfene.

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Può essere utilizzato nella cura di molte patologie dell’apparato respiratorio (i polmoni dentro cui penetra l’aria, collegandoci al respiro del Cosmo), in particolare in tutte quelle forme croniche per le quali vi sia la necessità di fluidificare le secrezioni catarrali (otiti, rino-sinusiti, bronchiti, asma bronchiale, bronchiectasie).

L’olio essenziale, anche se diluito, nelle preparazioni galeniche deve essere utilizzato con estrema attenzione, o prescritto dal medico (come tutti gli oli essenziali per via interna). Altrimenti è reperibile in numerosi prodotti fitoterapici in commercio.

E’ possibile utilizzarlo per suffumigi, aerosol (opportunamente emulsionato con una soluzione fisiologica), o miscelato a un olio vegetale, per massaggi sullo sterno.

La resina e gli aghi di Pino, bruciati, purificano l’aria dell’ambiente, sia su un piano fisico, disinfettandola, sia su un piano energetico. Lo stesso vale per l’olio essenziale.

Nel repertorio di essenze floreali di Bach, Pine è il fiore dell’autostima, che aiuta a superare sensi di colpa ingiustificati e la convinzione di non meritarsi di essere felici. Tutti meritiamo di esserlo, perché la felicità è la stessa energia che ci costituisce, alla sua frequenza più elevata.

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L’energia del Pino:

La voce del Pino è facile da sentire – è come un bellissimo pianto di luce, lungo, che collega la Terra al Cielo. Eppure il suo messaggio ha impiegato molto ad arrivarmi. Ha dovuto emergere da luoghi bui dentro di me, da memorie antiche.

Una volta, a una conferenza, Igor Sibaldi disse che ciò che è molto lontano nel tempo, in realtà è vicinissimo nel nostro inconscio. Questa frase ben rappresenta il Pino: archetipo espresso in una forma primordiale, simbolo di un processo che sta all’origine del Cosmo così come di ognuno di noi.

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Il Pino è l’immortale amore della madre per il figlio, e con questo si intende una forma di amore talmente pura da non rientrare in nessuna categoria, un amore al di là e prima di qualsiasi regola, identificazione tra dio e creato, che supera la morte e ogni differenza. Il Pino ricorda anche il dolore lacerante all’origine dell’Amore, e lo purifica, distillando una resina trasparente che è come luce solidificata, informata di messaggi akashici, antichissimi, che da miliardi di ere attraversano il Cosmo.

Il Pino li distilla dalla sua natura, di terra e di pietra, e li trasmette alla Terra, informandola della saggezza del Cosmo. Così quest’albero è un canale tra luce e buio (e il suo frutto somiglia all’epifisi, la ghiandola che regola il ciclo di luce e buio all’interno dei nostri corpi, apertura fisica al Settimo chakra), un essere vivente che supera la sua individualità, confondendosi con gli elementi.

L’energia emessa dal Pino è molto forte e primordiale. Ci collega alle lontananze cosmiche spalancate dentro di noi, ci aiuta a superare le dualità tra la nostra parte femminile e quella maschile, trovando nel nostro cuore nostra madre e nostro padre, rendendoci conto che i nostri genitori non siamo che noi stessi, che noi siamo i nostri stessi figli, e amanti. La danza cosmica ci proietta in mille direzioni e come scintille di un fuoco ci separiamo per poi incontrarci di nuovo e tornare a far parte di un’unica fiamma.

Osservare con gli occhi dell’Anima il Pino ci mostra come si esprime l’energia primordiale.

La sua enorme potenza è incanalata, contenuta per produrre geometrie precise: gli aghi, la pigna, la corteccia. La resina è energia primordiale purificata, elevata alla sua massima potenza dal fuoco nato dall’attrito tra il desiderio di espansione e il principio di contenimento. Così è in effetti la natura di ogni atto creativo, e il Pino ce ne rende visibile una forma intrisa di luce vibrante.

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Bibliografia:

-Adams M., The Wisdom of Trees, Head of Zeus Ltd, London 2014

-Angelini A., Il serto di Iside, Kemi, Milano 2008

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Firenzuoli F., Le 100 erbe della salute, Tecniche Nuove, Milano 2000

-Hageneder F., Lo spirito degli alberi, Crisalide, Latina 2001

-Hidalgo S., The healing power of Trees, Llewellyn Publications, Woodbury 2014

-Paterson J.M., Tree Wisdom, Thorsons, London 1996

-Rigoni Stern M., Arboreto salvatico, Einaudi, Torino 1996

-Scheffer M., Il grande libro dei fiori di Bach, Corbaccio, Milano 2013

– Sentier E., Trees of the Goddess, Moon Books, Hants 2014

-Spohn M. e R., Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio, Roma 2011

Il Castagno: la Luce dal Profondo

Nome: Castanea sativa Mill. (oppure Castanea vesca Gaertn.), famiglia delle Fagaceae.

Il nome latino Castanea, identico in greco, deriva da Castanis, una città del Ponto, in Asia Minore, da cui si pensava che provenisse la pianta.

Botanica:

Il Castagno è un albero deciduo, probabilmente proveniente dall’Iran o dall’Asia Minore, che cresce nell’area del Mediterraneo, nei boschi mesofili tra i 500 e i 1200 metri di altitudine, tra la fascia degli Ulivi e quella dei Faggi. Può formare boschi puri o vivere in compagnia di altre latifoglie, sopporta abbastanza bene il freddo ma teme le gelate tardive. E’ un albero longevo, che nelle condizioni ideali può anche superare i mille anni. La sua chioma è ampia e rotondeggiante, e il tronco tende a svilupparsi al massimo fino a 35/40 metri in altezza, ma diventa molto robusto. Se viene tagliato, il Castagno butta numerosi polloni, che crescendo vicini possono anche arrivare a fondersi in un unico, nuovo tronco. Il suo apparato radicale è espanso e resistente, si insinua nel suolo in larghezza e profondità. La corteccia degli esemplari più giovani presenta lenticelle (fessure a forma di occhio che permettono gli scambi gassosi con l’esterno) ed è solcata da rughe longitudinali che, negli alberi più maturi, si dispongono a formare spirali antiorarie.

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Le gemme sono ovoidali, glabre e di colore rossastro. Le foglie, semplici e alterne, hanno forma allungata di lancia e possono raggiungere una lunghezza di 25 cm e una larghezza anche di 8 cm. Sono dentate in corrispondenza delle nervature, ricoperte da peluria quando giovani e poi glabre, con ghiandole giallastre sulla pagina inferiore e un picciolo breve. I fiori maschili e femminili crescono sulle stesse piante, ma tra i fiori di una stessa pianta non può avvenire la fecondazione. I fiori maschili sono amenti giallo-verdastri che si sviluppano ritti verso il cielo, mentre i fiori femminili sono piccole infiorescenze che nascono alla base dei fiori maschili e da cui si formerà il frutto: una noce (castagna) racchiusa in una cupola spinosa. In ogni cupola (o riccio) sono generalmente contenute da 1 a 3 castagne e quando giunge a maturità la cupola si apre spontaneamente in quattro valve, liberando i frutti. Il Castagno fiorisce a primavera inoltrata e i suoi fiori vengono  bottinati dalle api, nonostante l’impollinazione di quest’albero sia prevalentemente anemogama: il Castagno dona volentieri il suo polline agli insetti, che ne fanno un miele particolare, leggermente amaro e dal profumo intenso. I semi del castagno germogliano molto facilmente, indicando la grande vitalità dell’albero, il suo desiderio di vivere.

Per crescere rigoglioso il Castagno necessita di un suolo profondo e ricco di humus, tendente all’acido, poco calcareo: questa pianta infatti è calcifuga, ovvero mal sopporta la presenza di calcio nel terreno, prediligendo il fosforo e il silicio. Questa caratteristica già ci dice qualcosa sull’energia del Castagno: il calcio è un elemento che struttura e dà forza al materico, mentre fosforo (dal greco phosphoros: portatore di luce) e silicio sono figli della Luce, Luce della Terra.

Un altro genere di suolo che il Castagno ama è quello di origine vulcanica (di nuovo: fuoco della Terra, luce dal profondo).

Il Castagno è molto sensibile ad alcune malattie, che negli ultimi decenni ne hanno decimato i boschi (cancro corticale, mal dell’inchiostro, gli insetti che ne mangiano le foglie quali il balanino delle castagne, la tignola, la carpocapsa e il bombice dispari). Inoltre, dal 2002 è presente in Italia un insetto originario dell’Estremo Oriente, il cinipide galligeno del Castagno (Dryocosmus kuriphilus), che sta danneggiando pesantemente la popolazione di Castagni europea.

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Il cinipide punge le gemme e deposita le uova provocando la formazione di galle, cioè ingrossamenti di varie forme e dimensioni da cui poi, l’anno successivo, sfarfalleranno i nuovi insetti adulti. Questo interferisce con il ciclo vitale dei Castagni, spesso impedendone la fioritura o la fruttificazione, e sottraendo linfa ed energia vitale.

Mitologia e storia:

Non sembra che esistano miti riguardo al Castagno, o almeno io non sono riuscita a reperirne.

Quest’albero grandissimo e umile che da tantissimi secoli vive a fianco dell’uomo sembra non avere leggende che lo ritraggono, come se anche l’immaginario popolare l’avesse tralasciato… Vedremo più avanti che questa caratteristica ci dice molto sull’energia e il messaggio del Castagno.

Il Castagno era noto fin dall’antichità e fu portato in Europa dall’Asia Minore dai Greci, che diedero il via alla sua diffusione in tutto l’areale mediterraneo e anche più a nord, fino in Inghilterra (dove però quest’albero ha una stagione vegetativa molto breve e non vive più di 500 anni).

Fino a dopo il Medioevo, costituiva un’importante fonte di cibo (i suoi frutti ricchi di amido erano alla base dell’alimentazione di gran parte della popolazione) e di legname (i suoi tronchi duri alla decomposizione costituiscono un ottimo materiale per fondamenta e costruzioni).

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A dispetto dell’importanza sociale ricoperta però, Plinio lo svaluta. Parlando della castagne scrive: “Esse sono protette da una cupola irta di spine, ed è veramente strano che siano di così scarso valore dei frutti che la natura ha con così tanto zelo occultato. (…) Sono più buone da mangiare se tostate; vengono anche macinate e costituiscono una sorta di surrogato del pane durante il digiuno delle donne (qui probabilmente Plinio fa riferimento ai culti femminili di Cibele, Cerere e Iside, in cui era proibito l’uso di cereali, sostituiti con pane di castagne)”. (Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia)

Evidentemente, a Plinio sfuggiva qualcosa.

A partire dal Rinascimento, in concomitanza con il progresso tecnico in agricoltura e lo sviluppo crescente della cerealicoltura, il Castagno come fonte di cibo e legname iniziò a perdere importanza e gli uomini smisero di prendersi cura dei suoi boschi. La crisi della castanicoltura (a cui concorsero molteplici cause tra cui il cambiamento delle abitudini alimentari, l’introduzione di nuovi materiali quali il metallo e l’interesse verso altre essenze forestali da legno) continuò fino alla fine dell’Ottocento, quando ebbe inizio il suo vero e proprio declino, dovuto alle decimazioni causate dalle malattie che iniziavano a diffondersi (cancro del castagno e mal dell’inchiostro in primis).

Nonostante questa triste storia di abbandono e conseguente fragilità, il Castagno continua a vivere accanto alle comunità umane, offrendo al giungere di ogni autunno i suoi dolcissimi frutti.

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Oltre a costituire una fonte di nutrimento essenziale per i vivi, le castagne fin dall’antichità sono sempre state considerate anche cibo per i morti. In alcune zone della Francia e dell’Italia era (e da qualche parte ancora è) in uso consumare castagne nel giorno di Ognissanti, in corrispondenza a Samhain, la festività celtica legata dall’apertura dei confini tra i mondi e all’inizio del nuovo anno lunare. Nella tradizione popolare le castagne costituiscono il pasto rituale della veglia del giorno dei morti, e in certe case si lasciano le castagne sul tavolo, come omaggio ai defunti. Nella Vienne, in Francia, durante la notte che precedeva il 31 ci si riuniva nei castagneti per cuocervi le castagne.

Secondo Angelini, il Castagno è governato da Giove (funzione primaria) e da Venere (funzione secondaria) ed è legato alla fonte dell’Energia Ancestrale che secondo i Cinesi e gli Egizi esce dai reni, si dirige verso gli organi genitali e risale lungo il meridiano posteriore e anteriore fino alla sommità del cervello, per entrarvi e uscire di nuovo terminando nell’interno del labbro superiore e inferiore.

Uno degli alberi più famosi e vecchi d’Italia è il Castagno dei Cento Cavalli, che vive forse da più di tremila anni nel comune di Sant’Alfio, sulle pendici dell’Etna. Si narra che sotto i suoi rami trovarono rifugio durante un temporale Giovanna d’Aragona e i cento cavalieri che l’accompagnavano per una gita sul vulcano.

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Fitoterapia:

Le foglie del Castagno sono state utilizzate fin dall’antichità (da sole o in associazione ad altre piante quali l’Eucalipto e il Timo) nelle affezioni delle vie respiratorie in virtù delle loro proprietà espettoranti, sedative della tosse e batteriostatiche.

Le gemme agiscono sui vasi linfatici, con una funzione di drenaggio sulla circolazione linfatica degli arti inferiori, dove la stasi linfatica è responsabile di edemi e senso di pesantezza (il Castagno, come si nota dalle spirali ascendenti della sua corteccia e dalla direzione dei fiori maschili, hanno la capacità di far fluire l’energia dal basso verso l’alto, si nutrono della Luce che trovano incastonata del buio della Terra, incanalandola verso il Cielo).

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Il gemmoderivato Castanea vesca gemme associato a Sorbus domestica gemme è un ottimo rimedio per l’insufficienza venosa degli arti inferiori, mentre associato a Aesculus hippocastanum è efficace nel trattamento dell’eritema eczematoso degli arti inferiori. Insieme a Castanea vesca foglie, invece, è utile contro a cellulite (angiocapillarite sottocutanea) (Campanini E., Manuale pratico di gemmoterapia).

In floriterapia, con i fiori del Castagno si prepara tramite bollitura l’essenza Sweet Chestnut, un rimedio vibrazionale molto potente e di grande importanza, che ci parla di Luce nelle tenebre e che corre in aiuto di coloro che stanno attraversando “la notte oscura dell’anima” (San Giovanni della Croce definisce così il viaggio attraverso il buio e la disperazione che affrontano le anime durante il progresso della loro unione con il principio divino).

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La grande floriterapeuta Mechthild Scheffer scrive a proposito dell’essenza floreale: “Lo stato Sweet Chestnut è legato al principio della liberazione. Nello stato Sweet Chestnut negativo l’individuo arriva a convincersi che per lui non esiste alcuna speranza di aiuto.” (Scheffer M., Il Grande Libro dei Fiori di Bach)

L’essenza dei fiori di Castagno ci soccorre nell’ora della verità, durante il confronto estremo della personalità con se stessa, durante il suo ultimo tentativo di opporsi a un cambiamento interiore decisivo da cui sente, erroneamente, di doversi difendere. Questo stato è la notte senza la quale non può sorgere un nuovo giorno e Sweet Chestnut porta un barlume di Luce in tutto questo gran buio, risvegliando in noi la capacità di avere fiducia nonostante le avversità, permettendoci di attraversare la fasi dolorose di inevitabile trasformazione senza smarrirci o crollare del tutto. Nel momento in cui lasciamo andare anche l’ultima resistenza, quando sfiniti dalla lotta cediamo e ci abbandoniamo a ciò che ci appare come la fine di tutto, decidendo che non abbiamo più la forza di opporci al destino e che accetteremo ciò che dovrà succedere… Proprio in quel momento, qualunque cosa accada, avviene la magia: la trasformazione che così tanto temevamo può avere luogo, liberandoci finalmente dal nostro vecchio sé, dall’esistenza passata, dal dolore, rigenerandoci e facendoci rinascere alla Luce. Sweet Chestnut risveglia in noi l’intuizione di questa possibilità, facendo vibrare la nostra Luce dal profondo e donandoci fiducia nel fluire dell’Universo, sostenendo tutti i processi di grande dolore e trasformazione, accompagnandoci nel viaggio attraverso la Notte, la Morte, l’Aldilà, senza dimenticare che, alla fine del buio, sorgerà un nuovo Sole.

L’energia del Castagno:

Quella che si sente camminando in un bosco di Castagni è una sensazione particolare. Ci si sente circondati da un’attenzione silenziosa, accolti e abbracciati dalle fronde degli alberi, come se questi ci osservassero, desiderosi di conoscerci e un po’ emozionati. L’energia che circola è molto intensa e si sente un fervere di attività sottile e vibrante tutto intorno.

Il Castagno è un albero speciale. L’uomo lo ha portato in Europa dall’Asia interessato alla sua utilità e il Castagno, generosamente, si è adattato ai nuovi climi, formando boschi vicino agli abitati dove gli uomini potevano comodamente andare a raccogliere legna e nutrimento. Nonostante amasse climi più caldi, ha accettato di crescere in Europa, fiorendo molto tardi e ogni anno quasi disperando di poter sbocciare in nuovi fiori. Eppure ha resistito, anzi la sua vitalità gli ha permesso di diffondersi, i suoi germogli attecchiscono con facilità e i suoi frutti cadono numerosi dai rami in ottobre, producendo quei tonfi secchi che sono per eccellenza il rumore dell’Autunno.

Ma l’uomo non ha mai avuto grande rispetto per quest’albero. Non lo ha onorato con miti e leggende, nonostante sia evidente che i suoi boschi pullulano di gnomi, fate e folletti. Non appena ha avuto un’alternativa, ha abbandonato i castagneti a se stessi, sostituendo i loro doni con prodotti considerati più efficienti o più facili da utilizzare, recandosi fra i loro tronchi amichevoli soltanto nelle domeniche di ottobre, per depredarli delle castagne, raccogliendo frettolosamente i frutti tra il fogliame caduto che ricopre il suolo di mille sfumature di colori caldi.

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E’ come se ogni autunno i Castagni preparassero per la maturazione dei loro frutti una grande festa colorata, cercando di risollevarsi dalla tristezza dell’abbandono, e quasi nessuno ci facesse caso. Le famiglie di umani, nelle domeniche di ottobre, si addentrano nei boschi schiamazzando allegre con i cesti in mano, raccolgono più castagne che possono (sempre meno, viste le malattie che hanno decimato la produzione) e poi se ne vanno a pranzare in qualche ristorante senza ringraziare i loro ospiti arborei. I Castagni nel pomeriggio di queste domeniche rimangono di nuovo soli, depredati e immersi nel silenzio. Nessuno si è accorto di loro, per l’ennesima volta li hanno solamente usati.

Questa storia triste accade continuamente nel mondo, non solo ai Castagni. Ma questi alberi sono particolarmente sensibili proprio perché amano molto l’uomo, così come amano tutte le creature. L’abbandono li rende esposti alle malattie e la loro vita si fa ancora più cupa, giungere a frutto diventa ancora più difficile.

I Castagni sono alberi ospitali, amichevoli, generosi. Hanno chiome frondose e tronchi possenti anche se a volte pare che si sfaldino. Ma soprattutto, hanno la capacità di connettersi con la Luce contenuta nella viscere della Terra e di lasciare che questa li attraversi, sotto forma di energia, liberandola nell’atmosfera. Il Castagno ha qualcosa che lo rende una creatura ultraterrena, che cerca ovunque la Luce e che di Luce è fatta. Non desidera il calcio (che è materico e dà struttura) ma fosforo e silicio, il suo tronco è avvolto da spirali, i suoi fiori si sporgono verso il sole, le api (esseri intimamente legati all’elemento Fuoco) amano il suo nettare e i suoi frutti sono pieni di Fuoco… Il Castagno è un albero della Luce, un albero magico che riesce a sopravvivere in un mondo che non sa ascoltare il suo linguaggio. Il Castagno resiste, non perde la sua grandezza, è sempre amichevole e le forme di vita della Natura lo adorano: fra i suoi rami vivono moltissimi insetti, uccelli e piccoli mammiferi, oltre che numerosi esseri elementali.

Le sue mille voci ci mormorano segreti che provengono da altre dimensioni, memorie cosmiche, melodie antichissime.

In un bosco di Castagni ho incontrato uno gnomo. Almeno credo che fosse uno gnomo, perché non l’ho proprio visto. Per scorgere gli elementali occorre essere molto allenati, non avere barriere mentali a sbarrarci la percezione, ma in ogni caso vederli non è necessario. Basta sentirli.

Stavo in ascolto e avevo comunicato agli alberi la mia apertura a ricevere il loro messaggio. Era l’inizio dell’autunno, ancora le foglie erano verdi ma si respirava già un’aria diversa, già le prime castagne schioccavano giù dai rami sul terreno. D’un tratto, alle mie spalle ho percepito una presenza. Mi sono voltata e ho capito che di fronte a me, vicino a un tronco, c’era uno spirito del bosco. Era piccolo, proprio come immaginiamo sarebbe uno gnomo. Era arrabbiato. Mi ha detto soltanto “Lasciateci in pace!” e poi se n’è andato.

Sul momento ci rimasi male. Pensai “Ma come, io sono qua in ascolto e voi mi dite soltanto questo!”. Ma poi mi guardai intorno. Sentii l’enorme bontà, la Luce che filtrava dalle grandi creature che mi circondavano quasi abbracciandomi, offrendomi con semplicità tutto il loro Amore. Lo gnomo aveva espresso, a buon diritto, l’insofferenza del bosco e dei suoi abitanti verso l’uomo-rapace, che schiamazza e fa rumori molesti, che depreda oppure abbatte, che prende senza ringraziare, che non sa vedere, non sa ascoltare, che dimentica… Per lo gnomo io non ero altro che una di “quelli lì”, che fanno casino e portano distruzione. E aveva fatto molto bene a dirmi quello che mi aveva detto, perché così io avrei potuto ripeterlo ai miei compagni umani: “LASCIATELI IN PACE!”

I Castagni, loro, non avrebbero mai usato un tono del genere. Ma è ormai evidente che la disperazione (il polo negativo della Luce immensa di questi alberi) li sta fiaccando sempre più. Gli gnomi sono arrabbiati perché essi conoscono l’importanza dei Castagni e sono stufi di vedere le loro case depredate dall’uomo.

Le malattie li assediano e i Castagni faticano a reagire. L’uomo non ascolta il loro grido. Cosa desiderano i Castagni? Io non lo so. Non so neanche se fra le loro attività vi sia qualcosa come “desiderare”. So però che si meritano una mitologia, delle storie che li raccontino, attenzioni, cure e rispetto, ammirazione per la loro incomparabile bellezza e per la loro abbondanza, generosità, amicizia… Soprattutto, come ogni altro albero e creatura, meritano di essere ascoltati e amati. E anche noi, stupidi piccoli uomini che non sanno vedere, ci meriteremmo di imparare ad ascoltarli e ad amarli. La Luce che ancora risplende in essi rifulgerebbe allora come una cometa, colmando le nostre vite. Abbracciamo i Castagni, sentiamo la Luce che scorre attraverso i loro corpi. Lo scambio energetico che avviene quando abbracciamo un albero è terapeutico sia per noi che per loro. Abbracciamoli! Uniamo la nostra energia a quella dei Castagni, per attraversare la disperazione onorando la Luce dentro di noi.

Onore ai Castagni perché, per quanto dolore li assedi, sono sempre donatori di vita, esseri di Luce, grandi amici del piccolo uomo!

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Bibliografia:

-Angelini A., Il serto di Iside, Kemi, Milano 2008

-Barnard J., Fiori di Bach, Forma e funzione, Tecniche nuove, Milano 2004

-Bosch H., Satanassi L., Incontri con lo Spirito degli Alberi, Humus Edizioni, Sarsina 2012

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

Campanini E., Manuale pratico di gemmoterapia,  Tecniche Nuove, Milano 2005

-Campanini E., Dizionario di fitoterapia e piante medicinali, Tecniche Nuove, Milano 2004

-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Motti R., Botanica sistematica e forestale, Liguori Editore, Napoli 2010

-Rigoni Stern M., Arboreto salvatico, Einaudi, Torino1996

-Scheffer M., Il Grande Libro dei Fiori di Bach, Corbaccio, Milano 2000

-Spohn M. e R., Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio, Roma 2011

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Full Moon Reflection: la Luce bianca della Verità interiore

Full Moon Reflection (Riflesso della Luna piena) è una delle essenze ambientali del repertorio alaskano scoperto da Steve Johnson. Raccontando la preparazione di questa preziosa essenza, Johnson scrive: “Questa essenza fu preparata in una fredda e limpida notte d’inverno, in un canyon che domina la baia di Kachemak nella zona centromeridionale dell’Alaska. Una ciotola d’acqua fu posizionata sulla neve in modo che potesse ricevere la luce diretta della luna piena, ma anche il riflesso della luce della luna sull’acqua della baia e del canyon bianco, colmo di neve.”

La Luna piena è un momento di allineamento cosmico, di grandissima energia purificatrice e di luce nelle tenebre, in cui il magnetismo della Luna influisce sulle acque del nostro pianeta e dentro di noi (il 70% della Terra consiste di acqua, proprio come il 70% del corpo umano). Il mare si gonfia, le piante stendono i loro steli verso il cielo, la Terra freme, ogni nostra cellula si connette all’energia crescente rispondendo con luce alla Luce, in una sinfonia di vibrazioni allineate a quelle della Luna, signora della notte, dama bianca che benedice e con i suoi raggi argentei rischiara le nostre parti più recondite, oscure, portando comprensione.

L’essenza ambientale caricata dell’energia di una Luna piena così potente, dei riflessi della neve e delle acque di un lago incontaminato, è un concentrato di luce offertoci per illuminare le nostre coscienze sognanti, espandendo la consapevolezza.

Quest’essenza ha un’azione molto particolare e importantissima in questo momento storico di grande accelerazione nella crescita spirituale: ci riconnette alla nostra Verità interiore, illuminando le parti più buie, ciò che giace non risolto sotto la superficie della nostra coscienza. Non appena questa luce bianca irrora le nostre cellule, si schiude per noi l’opportunità di lasciar andare quelle strutture inconsce che influenzano noi e gli altri senza che ce ne rendiamo conto.

Spesso, nelle relazioni con gli altri, proiettiamo inconsciamente le nostre paure e i nostri pregiudizi, pensando che la causa dei nostri fastidi e malesseri risieda nei comportamenti altrui. Così ci capita di attribuire agli altri la responsabilità delle nostre emozioni di rabbia o frustrazione, pretendendo che essi modifichino il loro comportamento o il loro modo di essere per farci stare meglio. Queste proiezioni, nell’ambito delle relazioni umane, possono raggiungere alti livelli di complessità, causando dolore e incomprensione. Vediamo errori e difetti negli altri, senza accorgerci che in realtà, come in uno specchio, ciò che stiamo criticando, ciò che giudichiamo male e che ci fa soffrire, in realtà è dentro di noi, e soltanto da lì, dal nostro cuore, può partire il processo di trasmutazione che attraverso l’accettazione, il perdono e il superamento porta allo sciogliersi dei nodi e alla trasformazione dell’energia negativa in Amore.

Il benessere delle relazioni, soprattutto quelle più strette, dipende grandemente dalla nostra consapevolezza dei pattern inconsci, questi copioni che continuiamo a recitare. Divernirne consapevoli, possibilmente insieme alle altre persone coinvolte nella relazione, è il primo passo verso la riconquista dell’armonia e verso una maggiore autenticità delle relazioni stesse.

Togliendo le maschere che indossiamo automaticamente, mostrando il nostro vero volto con un atto di libertà e consapevolezza profonde, guardando veramente l’altro per quello che è, senza proiettare su di lui i nostri fantasmi, ci può aprire un mondo di luce e onestà che prima non speravamo nemmeno esistere. Rompere i copioni che ripetiamo da una vita può risultare difficile, come difficile è identificare, smascherare le nostre proiezioni, distinguerle da ciò l’altro effettivamente è, o fa. Aspettative e pregiudizi sono programmi che abbiamo introiettato da lungo tempo per difenderci dall’immensità imprevedibile del mondo, e anche se ci fanno soffrire, siamo inconsciamente convinti che quel dolore sia un prezzo che va pagato, in cambio di protezione. Alla radice di tutto sta infatti la paura. Ogni giudizio nasce dalla paura di perdere se stessi, una paura che però è quasi sempre ingiustificata e che, anziché proteggerci, ci tiene prigionieri, riduce il nostro spazio vitale, soffoca il nostro respiro. E’ la paura dell’animale braccato che deve a tutti i costi sopravvivere, è un residuo biologico dei nostri copri antichi che oggi non ci serve più ma anzi ci impedisce di evolvere.

Full Moon Reflection porta tutta la luce della Luna piena e tutto il suo potere purificatore all’interno delle nostre cellule, illuminando le nostre coscienze e permettendoci di vedere chiaramente i pattern che governano le nostre relazioni, sostenendo il processo di rottura del copione e il riconoscimento del fatto che solo e soltanto noi siamo i responsabili delle nostre emozioni. Ciò che ci fa male negli altri non è che il riflesso di una ferita che si trova dentro di noi, e a noi spetta guarirla. Si tratta di un grande privilegio perché proprio attraverso questo processo di guarigione possiamo imparare la nostra lezione e crescere lungo il Sentiero.

Questa preziosa essenza ci sostiene nel fare luce sulle dinamiche delle nostre relazioni e può efficacemente essere assunta da entrambe le persone coinvolte in un rapporto che abba bisogno di chiarezza. Full Moon Reflection “può aiutare ad aumentare il grado di onestà e di rivelazione all’interno di una relazione, portando consapevolezza su tematiche irrisolte, che sono state reciprocamente soppresse e proiettate, così che possano essere risolte con una reciproca accettazione, comprensione e compassione.” (S.Johnson, L’Essenza della Guarigione)

E’ possibile unire l’azione dell’essenza all’energia delle notti di Luna piena, per celebrarne i poteri con una meditazione sulla luce bianca, lasciando che i suoi raggi portatori di comprensione e di Amore incondizionato pervadano i nostri corpi, armonizzando le nostre frequenze vibrazionali e aiutandoci a vedere con chiarezza, a guardare con il Cuore, a infrangere i copioni che continuiamo a ripetere da troppo tempo, forse anche da troppe vite. La Luna piena ci offre l’opportunità di uno sguardo lucido e sincero per comprendere i nodi karmici e scegliere di risolverli. Quest’essenza è pertanto anche una sorta di “facilitatore” karmico, che come uno strumento di precisione, al momento giusto, ci accompagna nel salto verso la luce.

Messaggio: “Apro la mia vita alla Luce della Verità; chiedo che nulla possa rimanere nascosto ad essa. Mi assumo la responsabilità dei miei sentimenti.”

Indicazioni: necessità di fare luce su un sentimento o su una relazione, bisogno di chiarezza nei pensieri e nelle emozioni, proiezione di pattern inconsci sugli altri, rifiuto di assumersi la responsabilità per ciò che si prova o che accade, dinamiche relazionali ripetitive, necessità di rompere il copione

Parole chiave: Verità interiore, onestà, comprensione, responsabilità, rottura del copione

Chakra attivati: IV, VII

Letture consigliate:

-Johnson S., L’Essenza della Guarigione, Bruno Galeazza, Bassano del Grappa 2011

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Betulla: la Triplice Dea dei Nuovi Inizi

Nome: Betula pendula (o alba), famiglia delle Betulaceae.

Il nome latino è una forma vezzeggiativa del nome gaelico dell’albero: beith.

Il nome inglese invece, birch, così come il vichingo birk e l’antico alto tedesco birka derivano molto probabilmente dalla radice indoeuropea bher(e)g, da cui tra l’altro deriva anche il sanscrito bhurja, e che significa “brillare”, oppure “bianco, splendente”.

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Botanica: Tutte le Betulle provengono dall’emisfero nord della Terra. Il rimboschimento dopo l’era glaciale iniziò proprio dalle Betulle. Oggi la Betulla bianca cresce quasi in tutta Europa. Nelle radure forestali è lei ad avviare la successione ma n genere finisce per soccombere alla concorrenza di altre specie arboree. Solo su lande e aree isolate riesce ad affermarsi in modo duraturo. La sua altezza non supera quasi mai i 25 metri.  Ha una chioma leggera di foglie dalla forma di asso di carta da gioco (da romboidale a rotonda-triangolare) che compaiono molto presto in primavera (la Betulla e il Sambuco sono i primi a mettere le foglie). Contemporaneamente alle foglie, sui suoi rami flessuosi compaiono anche i fiori, su ogni albero sia maschili che femminili. Gli amenti maschili sono penduli e si sviluppano sui rami dell’anno precedente, mentre quelli femminili, rivolti verso l’alto, crescono sui rami dell’anno in corso. Il polline della Betulla (a cui non poche persone sono allergiche) è abbondante e polveroso e si diffonde facilmente tramite il vento.

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Dopo che il fiore femminile è stato impollinato, l’amento fruttifero giunto a maturazione si disgrega, liberando piccole noci fornite di due ali che possono raggiungere lunghe distanza con l’aiuto del vento, colonizzando velocemente vaste aree. Solo con il tempo, però, le Betulle creano dense foreste. I compagni preferiti sotto la loro chioma leggera sono i prati e in seguito, quando il terreno lo permette, come per esempio le Querce. Poiché non vive molto a lungo (80, 100 o al massimo 120 anni), e poiché molti germogli avvizziscono sotto l’albero madre, sempre nuovamente la Betulla lascia spazio ad altri alberi, dopo aver migliorato il terreno in loro favori tramite le sue foglie che già alla fine dell’estate ingialliscono e cadono al suolo facilmente, formando una coperta fertilizzante per la Terra; e grazie alle sue radici sottili e sensibili che arieggiano il terreno, scambiando energia e ospitando micorrize e altre creature del suolo.

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Il legno della Betulla è duttile e leggero ma al tempo stesso resistente: questo lo rende adatto alla costruzione di mobili, attrezzi sportivi come gli sci, ed eliche. Anche il fuoco che produce è molto utile, perché si accende con facilità, anche se fresco (per via della presenza abbondante di catrame nella corteccia) e può bruciare in campo aperto senza produrre scintille.

Oltre alla chioma ariosa di foglie singole e generalmente minute, quasi cuoriformi, che vibrano al vento, un’altra importante caratteristica distintiva della betulla è senza dubbio la sua corteccia magnifica, tipicamente bianca cartacea a strisce orizzontali, con squarci neri di forma diamantata (in altre varietà di Betulla si può trovare anche marrone o addirittura nera però), ricca di catrame che la rende buona da bruciare ma anche impermeabile. Per questo veniva impiegata dai Nativi Americani per la costruzione dei tetti delle loro abitazioni, le wigwam, o per la costruzione di canoe. Anche le popolazioni del Nord Europa ne facevano e ne fanno tutt’oggi uso per la coibentazione dei tetti delle abitazioni tradizionali.

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Il colore bianco della corteccia, che ricopre un il colore rosso che sta al di sotto, è dovuto a cristalli di betullina incolori, che riflettono la luce del sole insieme all’aria contenuta nelle cellule.

I suoi rami principali crescono in verticale, mentre quelli secondari sono penduli. Tutti i rami durante l’inverno acquistano una tonalità violacea e sono ricoperti di uno strato di cera viola che dà alla Betulla una grande resistenza al freddo e al brutto tempo.

Mentre il legno di Betulla marcisce piuttosto in fretta, la corteccia si può conservare molto più a lungo. Per questa ragione può capitare di trovare, nei boschi, cilindri di corteccia di Betulla svuotati del loro contenuto.

Essendo un albero pioniere, la Betulla riesce a colonizzare bene i terreni incolti o che sono stati devastati da incendi. Può crescere su terreni pietrosi, sabbiosi e brughiere acide. Il suo sistema di radici poco profonde indica che non si aspetta molto dal suolo. I pochi minerali di cui ha bisogno vengono elaborati dai funghi che spesso le fanno gradita compagnia.

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La Betulla è un albero con un alto grado di adattabilità, che ben sopporta terreni umidi (grazie al fatto che le sue radici, non andando in profondità, non soffrono di asfissia a causa dell’acqua), acidi, brulli, poveri. E’ molto fertile e produce molti semi che sparge grazie all’aiuto del vento. E’ una coraggiosa colonizzatrice di terre estreme, una portatrice di vita. L’unica cosa di cui non può fare a meno è la luce. La luce che dona il colore al suo tronco e che fa danzare le sue foglie. La Betulla non sopravvive infatti in contesti boschivi troppo bui, se altri alberi crescono troppo vicino a lei, soccombe. O meglio, i suoi semi volano altrove, alla ricerca di nuove lande da fecondare, nuove terre in cui aprirsi alla luce e riflettere la sua gioia tutt’intorno.

Tuttavia non sono rari i boschi di Betulle, in cui i tronchi aggraziati di questi alberi crescono uno di fianco all’altro come sorelle. Le cortecce bianche donano un aspetto fantasmagorico a questi boschi, un’atmosfera fatata. Non per niente la betulla viene anche chiamata la Signora Bianca e in Irlanda e nel Galles è spesso associata al mondo delle Fate o all’altro mondo, Tir na nOg.

Spesso infine, si trovano anche Betulle gemelle, cresciute a gruppi di due o, più di frequente, tre tronchi con base comune.

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Trovare tre Betulle “siamesi” ha sempre qualcosa di magico: la Betulla infatti è un albero strettamente legato al culto del femminile e della Grande Dea, soprattutto nella sua forma triplice: Bianca, Rossa e Nera. La corteccia della betulla presenta tutti e tre i colori della Dea e quindi incontrare tre Betulle gemelle indica chiaramente che si è in presenza di una manifestazione della Dea e che il luogo in cui ci si trova è sacro.

Mitologia e storia: La Betulla è considerata un albero sacro presso numerose civiltà dell’emisfero boreale ed è da sempre stata una compagna fidata e ispiratrice dell’uomo.

Da un lato è l’albero sciamanico per eccellenza presso varie tribù siberiane, come i Buriati e i Samoiedi Avam, protagonista dei rituali di iniziazione sacri e vista come una scala su cui arrampicarsi per entrare nell’Altromondo, il mondo dei Morti e degli Spiriti dove il corpo dell’aspirante sciamano sarebbe stato fatto a pezzi, cucinato e rimesso insieme in modo diverso, ora dotato di poteri di guarigione e di una sapienza misterica; segnato per sempre da una ferita inguaribile che lo separa dal resto dell’umanità ma al tempo stesso gli dona una seconda Vista, un secondo Udito, la capacità di comunicare con gli Spiriti, di viaggiare nel tempo  nello spazio, superando la morte per recuperare frammenti di anime andati perduti, schegge di conoscenza nascoste fra i mondi. Lo sciamano è una creatura a metà fra l’aldiqua e l’aldilà, fra la vita e la morte. Non è più un uomo normale ma è un mago, in grado di influenzare la Realtà con la sua mente, che ha superato il concetto di separazione, di limite, e pertanto può qualsiasi cosa, poiché è in intimo contatto con le forse della Natura, è un tutt’uno con esse e ne è profondamente consapevole.

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La Betulla è la madrina dei rituali iniziatici degli sciamani siberiani, che la considerano l’asse del mondo, nonostante non sia un albero di grandi dimensioni. Ma la Betulla è anche un albero-fantasma, un albero-spirito, permeata di luce e aria, bianca e ricoperta di occhi neri, stagliata sola in mezzo a campi di neve, riflettendo la luce con la sua corteccia che si squama come il corpo di un serpente e le sua foglie che tremano al minimo soffio di vento. E’ un albero di confine, la cui chioma che balugina controluce sotto i cieli del Nord può apparire come un occhio che si apre e si chiude, come una porta per un altra dimensione. E’ facile quindi comprendere come mai gli sciamani siberiani le identificano come una scala che conduce nell’Altromondo. Una volta in cime a una Betulla, si scompare nella Luce.

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Oltre a comparire nei rituali, la Betulla compare come albero magico anche in numerosi sogni iniziatici in cui il futuro sciamano, affetto da una malattia apparentemente incurabile e da febbre alta, viene trasportato in viaggi astrali durante i quali incontra gli Spiriti dell’aldilà che gli insegnano a curare.

Il legno di Betulla ha inoltre la caratteristica di modulare molto bene i toni alti con quelli bassi e per questa ragione viene spesso usato, fin dall’antichità, come legno per costruire tamburi.

Questa qualità di albero limitare, di confine tra i mondi, caratterizza la Betulla anche presso le culture di origine celtica, dove è considerata un albero delle fate, nei pressi del quali dimorano spiriti magici o spettri.

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Oltre ad essere l’albero degli sciamani, la betulla è però anche l’albero della Grande Dea, in moltissime culture associata al principio femminile, probabilmente per via della sua grazia e leggerezza, della sua grande fertilità, del suo coraggio e della sua forza, del suo amore per la luce.

E’ un albero consolatorio, generoso, dotato di un grande slancio vitale.

E’ l’albero di Freya, dea della fecondità e dell’amore presso la cultura norrena; di Venere presso i Romani; di Berchta, di Brigit, di Ostara, di Cerridwen; Sarasvati, dea hindu delle acque, viene spesso rappresentata seduta a gambe incrociate su un fiore di loto, con in una delle mani una corteccia di Betulla su cui sono scritti versi dei Veda.

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Infatti, la corteccia di Betulla, per via della facilità con cui si stacca dal tronco e della sua conservabilità, è stato uno dei più antichi supporti per la scrittura in Russia e nel nord dell’India. I più antichi reperti dei Veda che abbiamo sono scritti su corteccia di Betulla.

Durante Beltane, una delle quattro feste stagionali celtiche che si celebrava il 1 maggio di ogni anno, le coppie di amanti andavano a fare l’amore nei boschi di betulle.

Sempre durante la festa della Primavera oppure della Pentecoste, i giovani portavano ghirlande di Betulla alle ragazze che amavano.

La Runa Berkana deriva il suo nome dalla Betulla, la cui energia rappresenta. Berkana è il principio femminile di maternità ed eterna fluidità, di nascita e rinascita; è l’anima della Natura, il Nuovo Inizio, la concretizzazione.

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Beith è inoltre la prima lettera dell’alfabeto arboreo oghamico.

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Ma oltre ad essere simbolo di Amore, di fluidità e di rinascita, di forza palingenetica che riporta la vita sulle ceneri degli incendi, la Betulla è allo stesso tempo anche simbolo di vecchiaia e di morte. Il bianco della sua corteccia, che fa apparire il suo tronco come un fantasma, e il suo ruolo di guardiana del confine tra la vita e la morte, la rendono protettrice delle soglie, saggia megera dai capelli candidi che non teme la morte perché sa di essere immortale;  la Perchta, vecchia madre sapiente, che custodisce i segreti della femminilità e protegge donne e bambini.

A questo aspetto è legato il suo potere purificatore: il mese della Betulla inizia il 1 novembre, con Samhain, la festa stagionale che segna l’inizio dell’anno lunare, il capodanno celtico. A Samhain le porte fra i mondi si aprono ed è possibile incontrare spiriti guida e spettri. Inoltre, a Samhain (durante la prima luna nuova dopo il 1 novembre) la Terra viene investita da una grande energia di purificazione, preparandosi ad attraversare l’inverno.

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Scope di rami di Betulla (non strappati dagli alberi ma raccolti da terra con rispetto, chiedendo all’albero madre il permesso di poterli utilizzare) venivano usate e vengono usate tutt’oggi per spazzare il pavimento scacciando le energie negative, ripulendo e purificando l’aura del luogo.

Nella saune dell’Europa del nord si usa ancora frustare dorsi e gambe delle persone con rami di Betulla, per favorire la circolazione.

La linfa di Betulla, che si raccoglie a inizio primavera da fori praticati nel suo tronco, è un rimedio per drenare e per purificare il sangue.

Inoltre la Betulla è da sempre connessa alla Triplice Dea (presente in tutte le culture indoeuropee fin dal Neolitico), sia per via della sue spiccate qualità di albero femminile, sia per via dei tre colori della sua corteccia (bianco, rosso e nero, come i colori della Dea giovane, matura e vecchia), sia per via del fatto che spesso si possono trovare gruppi di tre Betulle cresciute dallo stesso ceppo, che segnano luoghi sacri e costituiscono portali magici.

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La sua corteccia che si squama come la pelle di un serpente richiama anch’essa l’idea di morte e rinascita, di trasformazione, di nuovo inizio (abbandonare la pelle vecchia, ritornare giovani…) e contribuisce anche ad associarla alle immagini della Dea Serpente neolitica.

E’ l’albero nazionale di Finlandia e Russia.

Dove c’è tanta luce, c’è anche tanta ombra. E il potere della Betulla è proprio quello di non soccombere al lato oscuro ma di continuare a danzare la danza della vita, con grazia e sapiente leggerezza. E’ una vecchia, una vecchissima che però sembra sempre giovane. E’ il rinnovamento continuo, il morire e disseminarsi, scivolando in bilico tra Buio e Luce, scintillando.

Fitoterapia:

La Betulla è governata dal pianeta Venere (sistema linfatico, gola, larigne, corde vocali, reni, surreni) e in seconda istanza da Saturno (di nuovo le sue due anime!) ed è connessa alle potenzialità del segno Bilancia, che calibra in sé gli opposti, ma agisce efficacemente su tutti i segni ed è quindi da considerare una pianta delle più utili, da sempre molto importante per le popolazioni delle zone artiche e temperate.

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E’ uno dei diuretici e diaforetici più efficaci (soprattutto le foglie), in quanto è un potente eliminatore dei cloruri, dell’urea e dell’acido urico. Si impiega nei casi di reumatismi gottosi, litiasi urinarie, coliti nefritiche, albuminuria e applicata localmente con lavande nel caso di affezioni delle vie urinarie. E’ la pianta principe dei ricambi cellulari di sodio e potassio. Le foglie fresche sono più attive e ciò fa supporre che l’olio essenziali rinforzi l’attività diuretica.

Inoltre, l’estratto fluido, acquoso e secco ottenuto dalle foglie ha anche attività antibiotica.

E’ largamente impiegata nel trattamento della cellulite, favorendo l’eliminazione di acido urico e colesterolo e di conseguenza l’eliminazione e la scomparsa dei noduli fibroconnettivali.

Infusi di foglie di Betulla si usano, esternamente, contro la caduta dei capelli, mentre con la corteccia si possono preparare pediluvi utili contro il sudore profuso dei piedi.

Influendo sulle surrenali, la Betulla è anche un debole stimolante sessuale, ed è ottima ed efficace anche nei casi di ipercolesterolemia.

La corteccia e il legno di Betulla danno per distillazione secca un catrame che viene utilizzato nella cura delle affezioni cutanee. L’olio essenziale ottenuto dal catrame di Betulla si una in pomata (8%) contro il reumatismo e può essere impiegato in prodotti per il massaggio sportivo.

In Gemmoterapia è da segnalare la Linfa di Betulla (conosciuta come Betula verrucosa linfa), che contiene due eterosidi i quali liberano per via enzimatica salicilato di metile ad attività analgesica, antinfiammatoria e diuretica. Nel trattamento dell’iperglicemia può essere considerata rimedio principe, in quanto la sua assunzione regolare per due o tre mesi ne permette la riduzione del 20-30%: si riesce così a ottenere una diminuzione non solo del rischio vascolare, ma anche articolare, sempre presente nell’uricemia. Per l’aumentata attività diuretica che determina, può anch’essa essere utilizzata nel trattamento delle litiasi urinarie.

L’indicazione principale per la linfa di Betulla è comunque quella riguardante il trattamento della cellulite, ove riduce l’impastamento e la componente dolorosa oltre a contrastare, grazie all’aumento della diuresi, la ritenzione idrica. Per queste peculiarità e per l’attività ipocolesterolemizzante, la linfa di Betulla rientra anche nei protocolli terapeutici per il trattamento del sovrappeso.

La linfa di Betulla viene raccolta con una tecnica particolare: all’inizio del mese di marzo, durante la montata di linfa primaverile, si praticano nelle Betulle adulte, che crescono in zone boschive, e di preferenza sulla parte del tronco esposta a sud, alcuni fori a circa un metro da terra, profondi da due a cinque centimetri, leggermente obliqui verso l’alto, nei quali si introduce un ubichino da cui la linfa defluisce nei recipienti posi a terra. La raccolta risulta più proficua quando le Betulle sono di media grandezza, crescono in luoghi elevati e l’inverno è stato rigido. Ricordiamoci, qualora volessimo tentare queste tecnica, di chiedere il permesso alla Betulla, di trattarla con rispetto e gentilezza ed esserle profondamente grati per il dono che ci sta facendo. Non abusiamo della sua generosità, tuteliamo al sua salute e integrità: la linfa è il suo sangue!

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In Gemmoterapia, oltre a Linfa di Betulla, si utilizzano anche altri gemmoderivati, tutti dalle magnifiche proprietà e preziosi per l’uomo. Eccone un breve elenco (Betula verrucosa Ehrart, Betula alba L. e Betula pendula Roth sono tre nomi differenti usati per indicare lo stesso albero):

Betula verrucosa gemme MGDH1: processi di natura infiammatoria o infettiva, disturbi della cresctia:

Betula verrucosa semi MGDH1: navrastenia da affaticamento intellettuale, depressione;

Betula pubescens amenti MGDH1: astenia sessuale, sovrappeso;

Betula pubescens gemme MGDH1: infezioni recidivanti delle vie aeree (azione immunostimolante), disturbi della crescita;

Betula pubescens radichette MGDH1: iperuricemia, ritenzione idrica, ipercolesterolemia.

Nel repertorio floreale alaskano c’è un’essenza che si ricava dai fiori di Betulla, in particolare quelli di Betula papyrifera, una specie di Betulla diffusa in Alaska, la cui corteccia tende a sfaldarsi in riccioli. Il rimedio, Paper Birch, è utile in tutte in quelle occasioni in cui ci sentiamo insicuri, non riusciamo a comprendere dove siamo sul nostro cammino, abbiamo difficoltà a prendere decisioni che incidono sul nostro cammino oppure quando non abbiamo sufficiente determinazione nel raggiungere in nostri obiettivi una volta che sono stati identificati e facciamo quello che gli altri vogliono che facciamo piuttosto che ciò che noi vogliamo fare.

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Paper Birch porta calma determinazione, salda consapevolezza dei propositi e una continuità di focalizzazione che viene da una connessione chiara e attiva con i livelli profondi del sé. Paper Birch rinnova la nostra prospettiva su ciò che stiamo facendo nella vita e introduce un’energia calmante, chiarificante e rilassante che ci aiuta a spostare l’obiettivo  dai pensieri caotici e dalle emozioni confuse alla pace e alla gioia che sono sempre presenti nel centro del nostro essere. Da questo luogo di consapevolezza siamo più capaci di prendere decisioni fondamentali nella nostra vita che supportino la verità di ciò che siamo.

Il messaggio di Paper Birch è “Sono attivamente connesso con i livelli più profondi del mio vero sé. Seguo il sentiero della mia vita con calma determinazione.”

L’energia della Betulla:

La Betulla è un albero che amo moltissimo. E’ uno spirito libero, l’incarnazione della libertà e della gioia di vivere. E’ coraggiosa, una pioniera, una vera e propria guerriera della luce la cui arma è però la leggerezza, la fluidità, la danza. E’ un’acrobata che percorre il confine fra Buio e Luce, è una Porta fra i Mondi che grazie alla sua profonda saggezza sa ridere, sdrammatizzare. La sua danza di gioia, la sua chioma che ondeggia nel vento, le sue foglie che cantano luce, i suoi rami flessuosi, il suo aspetto lieve di giovane ballerina non deve trarre in inganno: è proprio la sua grande sapienza, il suo conoscere i segreti per il passaggio tra le varie dimensioni, il suo vivere vicina al ricambio tra vita e morte, a renderla così “spensierata”. Come gli sciamani, che si dice ridano spesso, di quasi qualunque cosa: è perché conoscono la Realtà e sanno che non c’è nulla oltre la gioia. La gioia non è quindi segno di immaturità: chi danza davvero, come la Betulla, lo fa perché sa che non c’è nient’altro, oltre la danza.

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La danza della Betulla è la Danza della Vita, i suoi tronchi bianchi riempiono gli occhi di luce ma portano addosso anche squarci di nero, e sono proprio quegli squarci ad essere i loro occhi… Il bianco riflette la luce dell’aria, ma il nero assorbe, introietta. Nella Betulla troviamo il bianco, il nero e il rosso della Fertilità, una grande fiducia nella rigenerazione, nel mondo: la betulla sparge i suoi semi al vento, lasciando che questi, con il coraggio che deriva dalla gioia e la fiducia che nasce dalla forza e dalla saggezza, volino per il mondo e fecondino la Terra.

Dopo l’era glaciale, quando l’emisfero boreale non era che una landa umida e desolata, lunare, è stata lei, la Dama Bianca, a colonizzare i prati riempiendoli della sua luce, nutrendoli con la sua energia, trasformandoli in magnifici boschi.

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Quest’albero sottile, vicino al mondo degli spiriti, emana chiaramente due tipi di energia, che si fondono e confondono l’uno nell’altro: una è l’energia materna e accogliente, simpatica, della ragazza dei boschi. Incontrare durante le passeggiate i tronchi occhieggianti delle Betulle alleggerisce immediatamente l’animo, fa sentire accolti, a casa, tra le braccia delle proprie sorelle, allegre e al tempo stesso discrete. L’altra energia è quella fantasmagorica, spiritica, sempre richiamata dal colore bianco. Un bosco di Betulle, mentre sembra una famiglia di sorelle che accolgono, proprio al tempo stesso, contemporaneamente, sembra anche un bosco di fantasmi, di spiriti assiepati che osservano e proteggono la sacralità del luogo. Non spaventano, ma per un attimo fermano il cuore, facendoci riflettere sul fatto che l’Altromondo è molto più vicino di quanto siamo soliti credere, è proprio qui di fianco a noi, anzi, in mezzo a noi: pervade il nostro mondo, ci siamo dentro in questo preciso momento…

La Betulla è legata sia a Beltane, festa della primavera, che a Samhain, festa di purificazione, capodanno delle Streghe, cuore dell’inverno.

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E’ la grande Madre, la Sorella e la Vecchia Saggia.

Il suo aspetto muta, in alcuni momenti è un’anziana signora dai capelli candidi, in altri una giovane che danza con la chioma luminosa sciolta nel vento.

Il suo segreto sta nel cambiare pelle, nello sfaldarsi della sua corteccia, nel rinnovamento continuo e nel non attaccamento. La Betulla sa che la vita è un ciclo di morti e rinascite il cui cuore è il continuo mutamento, il ricambio, lo slancio che inizia le danze, la corsa verso la luce.

La sua potente energia protegge tutti i nuovi inizi, donando leggerezza e fiducia ma anche forza, coraggio, adattabilità e saggezza.

In ogni nuova impresa, quando dovete lasciare andare il vecchio per intraprendere il nuovo, fate come la Betulla, questa antica e bellissima Maestra: entrate in contatto con la fluidità tutta femminile e l’ispirazione che brilla dentro di voi, sentite la vita pulsare nel vostro centro, pulsare di gioia. Screpolate via la pelle morta dalle vostre membra, fate la muta, rinnovatevi da capo a piedi lasciando scivolare via da voi le cellule morte, le energie del passato. Fate una girandola tra Buio e Luce, lanciate per aria i vostri semi, affidandoli al Vento, espandetevi danzando senza paura, correte libere per i prati attraversando l’inverno certe del ritorno della Luce, felici anche nel Buio. Siate voi stesse a cambiare il mondo, con la vostra energia feconda. Tutto è possibile, basta non smettere di danzare, anche quando sembra di essere immobili. La danza è nella luce degli occhi, nell’aria che respiriamo, e nutre ogni nostra cellula di gioia immensa.

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“I’d like to get away from earth awhile

And then come back to it and begin over.

May no fate willfully misunderstand me

And half grant what I wish and snatch me away

Not to return. Earth’s the right place for love:

I don’t know where it’s likely to go better.

I’d like to go by climbing a birch tree,

And climb black branches up a snow-white trunk

Toward heaven, till the tree could bear no more,

But dipped its top and set me down again.

That would be good both going and coming back.

One could do worse than be a swinger of birches.”

(Da Birches di Robert Frost)

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