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Inverno

Le stagioni che preferiva erano l’autunno e l’inverno, quando la Terra inspirava e poi tratteneva il respiro. Mentre le forze del sottosuolo imperversavano, sopra tutto era calmo, rimanevano poche cose, il cielo si avvicinava come per sentire un segreto. La luce obliqua rendeva le ombre sensibili, dando nuova tridimensionalità alle pietre, ai rami scuri, alle foglie sfiorate dal freddo, all’acqua che diventava cristallo. Cresceva il muschio, l’aria profumava di tempo senza fine e c’era silenzio. Arrivava la neve. Una cosa che non le piaceva d’inverno era la pioggia. La pioggia era meglio d’estate.

Lì dov’era non cadevano foglie. Gli alberi erano tutti pini e abeti dai tronchi possenti, alcuni vecchi di secoli. Il sole si muoveva veloce su e giù nel cielo e la luce cambiava in continuazione.

Quest’anno, Ada sarebbe rimasta a guardia della riserva durante i mesi freddi. Fino all’arrivo della primavera avrebbe vissuto nella baita tra gli abeti, con la sua provvista di legna e un corriere che una volta ogni dieci giorni portava le scorte di cibo. Per bere avrebbe usato l’acqua della fonte. Nella riserva vivevano venti lupi.

Ada aveva i capelli neri, lunghissimi e lisci, la pelle bianca, i seni minuscoli, gli occhi verdi a fessura. Era piccola e forte. Suo padre era un eskimese e le aveva insegnato a fare il fuoco.

La prima neve cadde a ottobre. La terra coperta di aghi e neve era un animale sognante. Ada girava il bosco secondo schemi geometrici. Raccoglieva rami, pigne, pietre, incontrava i lupi. I lupi la riconoscevano ormai, e non avevano paura. Uno di loro era tutto bianco con gli occhi neri ed era finora quello che aveva osato andarle più vicino, fino quasi a sfiorarla col muso. Un altro, il lupo più vecchio, stava sempre da solo e aveva il pelo grigio e folto e gli occhi verde acqua. Zoppicava leggermente. Quando la vedeva si metteva dietro il tronco di un albero e la osservava inclinando la testa. Ada dava da mangiare ai lupi, lasciando la carne in mangiatoie. I lupi sapevano che era lei a portare il cibo, la controllavano di nascosto. C’erano undici femmine. Le femmine erano più piccole e meno ossute dei maschi, molto più prudenti.

La baita era accogliente, profumata. Il camino funzionava alla perfezione e il letto era sul soppalco, un nido bianco di piume. Dalla finestra Ada poteva guardare i boschi e la valle, dove il torrente diventava fiume roccioso. Sullo stesso versante della montagna ma più in basso viveva lo scultore. Era l’unico a vivere nella riserva, oltre ad Ada. Aveva ricevuto un permesso speciale perché lui viveva già lì quando la riserva era stata fatta. Il corriere che portava le provviste si fermava da lui e lasciava lì il cibo per entrambi, senza salire fino alla baita dove stava Ada. Spesso, Ada e lo scultore mangiavano insieme. Lui sembrava meno vecchio di quanto fosse. Aveva la barba brizzolata, camicie a quadri, era un uomo forte. Un bravo scultore. Scolpiva il legno senza abbattere gli alberi. Si limitava a raccogliere i ceppi e i tronchi che trovava per terra durante lunghissime escursioni nei boschi. Ada l’aveva visto lavorare, erano diventati amici. Una volta che trovava un pezzo lo osservava a lungo con i suoi occhi luminosi. Poi, lentamente ma con decisione, inziava a scalpellare e tirava fuori dal legno la sua forma nascosta. Si trattava sempre di figure di donna.

Quel mattino l’aria tagliava il fiato e il cielo stava di traverso tra le cime degli abeti altissimi e neri, conficcati nella roccia come lance di titani. Il sole era uno spillo e la neve si smagliava e scivolava fino a valle. Ada uscì dalla baita e venne trafitta dalla luce accecante di mille riflessi di ghiaccio, mentre inspirava l’aria fredda da bruciarle narici e gola. Quel gelo all’interno la faceva sentire eterna in quell’istante, sigillava, rendeva perfetto il respiro. Si mise lo zaino in spalla e corse alla fonte. Bevve l’acqua direttamente dalla roccia da cui sgorgava ed era come bere cristallo. Finito il giro delle mangiatoie, decise di salire fino al piccolo altopiano dove c’erano le sorgive. Ci volevano quasi due ore di cammino in salita per arrivare, poi tra gli alberi si apriva uno spiazzo scosceso dove nella neve ribollivano tre pozze, due più piccole e una un po’ più grande. L’acqua arrivava lì direttamente dalle interiora della Terra, era antica e appena nata e odorava di minerali attraversati a fatica. Ada si tolse i vestiti ed entrò nella pozza più grande. L’acqua gorgogliava, c’era vapore e odore di zolfo. Ada si lasciò sommergere dalla luce del mattino e dal tepore della Terra. Sotto ai piedi sentiva la roccia liscia come metallo. A volte, una Voce risuonava nel cielo e faceva vibrare l’aria. Quel mattino però tutto quello che si sentiva era il borbottìo delle sorgive. Il resto era silenzio, dentro e fuori Ada. Un silenzio maestoso e riposante. Quando il sole si fu spostato di dieci gradi, Ada uscì dalla pozza. Nuda sulla neve era altrettanto bianca. Il corpo lucido che si rivestiva veniva osservato da due lupi nascosti fra i tronchi. Ada non se n’era era accorta ma l’avevano seguita. C’era sempre qualche lupo che ne studiava i movimenti, per proteggerla. Il ritorno a casa fu più rapido perché in discesa.

Lo scultore aveva mani quadrate e unghie coriacee. Masticava in silenzio bevendo vino scuro. Lui e Ada mangiavano insieme funghi del bosco e formaggio. Il pane profumava. Nessuno dei due diceva niente. Dietro alle spalle dello scultore, su una pedana, stava un enorme pezzo di legno ricoperto di muschio e licheni, ingombrante e odoroso come un relitto. Lo scultore aveva passato la mattina a osservarlo e lo stesso avrebbe fatto quel pomeriggio. Avrebbe osservato e ascoltato quel meteorite di corteccia bevendo vino fino a sera, fino all’alba, fino a che dietro ai suoi occhi non avesse cominciato a emergere la forma nascosta. Anche se le sculture non erano in vendita, quello era il suo lavoro e lo amava.

Stambecchi e caprioli dovevano fare attenzione nella riserva dei lupi, ma ce n’erano comunque. I cerbiatti avevano il mantello macchiato che li mimetizzava nella neve. Avevano occhi intelligenti e nasi neri e umidi. Ada quando li vedeva rimaneva immobile senza respirare e li osservava stringendo gli occhi per mettere a fuoco ogni dettaglio.

Quando c’era il sole e Ada si metteva fuori dalla baita a intrecciare ramoscelli per fare ceste, a volte arrivava il lupo bianco. Usciva allo scoperto e si accovacciava sul limite degli alberi, a dieci metri da lei. La guardava lavorare. Il suo pelo luccicava come la neve. I caprioli e i cerbiatti sfrecciavano nell’ombra intorno.

Le radici degli abeti sostenevano la terra e le impedivano di scivolare. Le loro radici possenti e sottili si insinuavano nella roccia, creando microscopiche fessure che riempivano di se stesse.

Lo scultore viveva in una baita alla fine dell’abetaia, dove inziavano a esserci anche betulle e castagni. Il legno di betulla era il suo preferito. Flessuoso, umido, con la corteccia simile alla pelliccia di un animale. Quando decideva di lavorare il legno di betulla, doveva prima lasciarlo seccare per giorni davanti al fuoco, e il legno sospirava. Spesso durante i sogni lo scultore veniva visitato dalla Donna Betulla. Era lo spirito dell’albero, al posto dei capelli aveva una chioma di foglie minute, alcune verdi e alcune gialle. Lo sfiorava con i suoi piedi bianchi e gli parlava, ma anziché udire parole lo scultore vedeva forme, forme in cui la donna si trasformava dinanzi a lui.

Lo scultore assomigliava a un lupo. Le basette erano da lupo, gli occhi verde muschio con le piccole pupille, il collo grosso, leggermente incassato, l’andatura elastica, spensierata sulle gambe lunghe, proprio come quella dei lupi, che quando camminavano sulla neve sembravano saltellare e questo contrastava con l’espressione concentrata dei loro musi.

In fondo i lupi erano animali allegri.

Il giorno del solstizio il lupo bianco non c’era. Ada lo cercò disegnando rombi nella neve, esplorando sistematicamente i luoghi della riserva in cui a lui piaceva andare, senza trovarlo, finché non giunse il buio. Quella notte non dormì. Vide dalla finestra della baita l’aurora boreale che verdeggiava nel cielo, fiamme di elettricità danzavano sulla volta scura e l’aria vibrava di un suono profondo e possente, come se la Voce stesse cantando un canto immenso, di una sola nota.

Il lupo bianco tornò due giorni dopo. Nel suo sguardo qualcosa era cambiato, o forse era solo un’impressione di Ada. In quel posto, come sempre durante l’inverno, le impressioni si confondevano con l’ambiente circostante, rendendo impossibile, a un certo punto, distinguere tra ciò che succedeva dentro e ciò che succedeva fuori della testa di Ada. La sua mente era la riserva dei lupi.

Nel giorno di Capodanno la linfa ricominciò a salire nel legno degli alberi, prima timidamente, poi sempre più forte.

Da giorni lo scultore provava invano a scolpire nel legno l’immagine di donna che aveva sognato. E l’enorme pezzo di legno, il tronco vivo ricoperto di muschio e licheni davanti a cui lo scultore trascorreva ore di veglia e di sogno, andava sempre più rimpicciolendosi sotto i colpi della sega elettrica e dello scalpello. Ogni volta gli sembrava di stare per farcela, di essere quasi giunto alla fine: scolpiva il corpo, i capelli, il seno, le mani, l’ombelico, il naso ma poi, arrivato agli occhi, si bloccava e non riusciva a proseguire. La Donna non era cieca. Nel sogno i suoi occhi erano visibili, indimenticabili. Lo scultore li vedeva chiaramente, ma non riusciva a tirarli fuori dal legno. Ogni volta falliva e doveva cancellare tutto, segare via in trucioli il lavoro fatto, ridurre il relitto di legno di nuovo a un ceppo informe e ricominciare: piedi, polpacci, ginocchia, cosce, fianchi, ventre, pube, ombelico, costato, seni, capezzoli, sterno, clavicole, spalle, braccia, mani, collo, la Donna era bellissima, bella come non mai anche se grezza, robusta, profondamente donna. Mento, labbra, mandibole, naso, fronte, orecchie, capelli lunghi di foglie. Tutto era perfetto, affiorava dal legno come una visione. Mancavano solo gli occhi. Lo scultore ci provava, e falliva, di nuovo. Beveva un bicchiere di vino scuro, ravvivava il fuoco con ceppi d’abete, lanciava sguardi rabbiosi alle stelle vicine e poi ricominciava, senza mai dormire. Il suo lavoro era il suo sogno. Gli occhi della Donna gli sfuggivano dalle mani come polline in primavera.

Il lupo bianco spariva sempre più spesso. Ada aveva smesso di preoccuparsi, ma era curiosa.

Un mattino, dopo che era stato via per cinque giorni, Ada uscì dalla baita e lo trovò seduto al margine dell’abetaia, a pochi metri da lei. Quando lui la vide si alzò e le andò incontro, come un cane. La guardò per qualche secondo, lo sguardo fisso nel suo e la coda ritta, poi si voltò e cominciò ad allontanarsi. Ada lo seguì. Il lupo si lasciava seguire, saltellando nella neve fresca e soffice. Il cielo era coperto, prometteva altra neve.

Il lupo bianco camminava verso nord, dove finiva il bosco. Il limite della riserva non era segnato da reti o cancelli, ma solo da cartelli e da una fila di abeti che si stagliavano ordinati per diversi chilometri. I lupo li oltrepassò, seguìto da Ada. Non era ancora mai stata lassù. Dopo gli abeti, la montagna diventava più scoscesa. Ada e il lupo si inerpicarono insieme, sempre più vicini alle nuvole. Ogni tanto il lupo si voltava e la guardava, rassicurandola.

Salendo, la neve diventava ghiaccio perenne, da cui spuntava roccia nera come meteorite. Gli sprazzi di sereno fra le nuvole erano diamanti sopra alla testa di Ada.

Dopo tre ore di ripido cammino, Ada e il lupo arrivarono su uno sperone di roccia ghiacciata, un’insenatura che formava una sorta di balcone nel fianco della montagna, affacciato sul vuoto, e lì c’era lui.

Al centro dello sperone si apriva una finestra di ghiaccio in cui, sdraiato come in una tomba, c’era un uomo. Il lupo gli sedette vicino. Ada s’inginocchiò di fianco al lupo e osservò. L’uomo era vestito come un eskimese, con abiti di pelliccia e cappuccio. I lineamenti del volto, la forma delle calzature, la faretra appoggiata sul fianco, erano quelli di un un uomo primitivo. Un uomo che dormiva da secoli, da solo lassù, le mani appoggiate sul ventre, il volto sereno. Era integro, incastonato nell’inverno della montagna. Forse il suo cuore avrebbe anche ripreso a battere, se il ghiaccio si fosse sciolto. Ada e il lupo lo guardavano in silenzio, lassù dove non volavano uccelli e dove la neve cadeva fitta e lenta. Si potevano udire i battiti del proprio cuore e il respiro era fatto di spilli. La valle dei lupi sotto di loro era immersa nel bianco.

Quando Ada riaprì gli occhi, era buio. Doveva essersi addormentata accanto all’uomo di ghiaccio. Le lingue verdi dell’aurora boreale le lambivano i capelli coperti di brina. Non sentiva più i piedi, il lupo non c’era. Dalla finestra trasparente in cui giaceva l’uomo si diffondeva una fosforescenza azzurrina, come un bagliore cosmico, ma proveniente da dentro la Terra e dall’uomo stesso. Con il buio tutto intorno e la luce che sprigionava, Ada poteva vederne meglio i dettagli. L’uomo aveva baffi sottili e una cicatrice profonda sullo zigomo destro. Le ciglia lunghe gli davano un’espressione triste. La pelliccia che indossava era di un colore meticcio, un po’ bianca, un po’ nera e un po’ marrone, sarebbe potuta appartenere a un lupo. Al collo l’uomo aveva un cordoncino da cui pendeva una lunga zanna gialla. Ada non conosceva nessun animale, tra quelli non ancora estinti, che potesse avere una zanna del genere.

La fascinazione con cui osservava l’uomo fu interrotta dal pensiero che il freddo l’avrebbe uccisa, così come centinaia di migliaia di anni prima aveva ucciso lui. Il gelo l’avrebbe resa la sua sposa di ghiaccio. Il naso le doleva, e così anche le mani. Se avesse avuto con sé anche solo qualche ramo, avrebbe saputo accendere un fuoco, come le aveva insegnato suo padre. Ma lassù non c’era niente di vivo, a parte lei, solo roccia e neve. Ada sentì un gelido artiglio sfiorarle il cuore e alzò lo sguardo al cielo verde, danzante e vicino come mai. Il giorno è della terra, la notte è del cielo, pensò. Poi udì il rumore di una zampa che raspava contro il ghiaccio, si voltò e vide il lupo bianco alle sue spalle. Il pelo scintillava di brina nel buio, gli occhi luccicavano come stelle. Le parve ancora più grosso del solito, una creatura soprannaturale. Quando il lupo si mosse, Ada lo seguì. Poco distante, subito dietro lo sperone, c’era un buco nella montagna. Era piccolo, Ada ci sarebbe passata a mala pena carponi. Il lupo entrò strisciando, Ada lo seguì. Dentro sarebbe stato meno freddo.

Dopo una lunga galleria buia e stretta, giunsero nella caverna. Il cunicolo sboccava in una grotta circolare, piuttosto ampia e stranamente luminosa, dove c’era un tepore accogliente. Gli occhi di Ada vennero riempiti dal baluginare di centinaia di cristalli di quarzo che tappezzavano le pareti della caverna. Sembrava che, a quella profondità, la montagna stessa fosse fatta di cristallo. La luce accumulata nella silice milioni di anni prima, in ere geologiche durante le quali i cristalli non erano che magma incandescente, ora si sprigionava dai quarzi diffondendo nella caverna una luce ultraterrena. Tutta la grotta sembrava fatta di ghiaccio perfetto, che però invece di essere gelido era tiepido, di un tepore primordiale e materno. Era il cuore della montagna, il cuore dell’inverno, dov’era custodito il segreto della luce. Un soffio d’aria proveniente da chissà dove soffiò tra i cristalli, producendo un sibilo che ricordò ad Ada la Voce che a volte risuonava per la valle dei lupi. Nella caverna c’erano cristalli di quarzo ialino di ogni dimensione. Per terra c’erano i pezzi più piccoli, che formavano una polvere luccicante. Al centro giaceva un enorme cristallo di quarzo rosa, l’unico e il più grosso di tutti, posato in orizzontale come fosse un altare. Era da lì che si sprigionava la luce più forte. Ci dovevano essere voluti milioni di anni per formare un cristallo di quelle dimensioni. In fondo alla caverna, nella parte opposta a quella da cui Ada era entrata, c’era una soglia, un’apertura da cui partiva una scalinata incisa nel quarzo che andava ancora più in profondità. Ada avrebbe voluto scendere per vedere dove portasse, ma ora si sentiva troppo debole. Si sdraiò sul quarzo rosa e percepì un’onda di calore invaderle il corpo. Poi cadde in uno stato tra la veglia e il sonno e forme luminose danzarono davanti a lei. Il lupo, seduto tra i quarzi, la osservava.

Le scale di cristallo avrebbero potuto condurla al centro della Terra. Forse laggiù c’era Atlantide, o una dimensione popolata da esseri di luce. In effetti, pensò Ada in bilico tra i sogni, anche io sono luce.

Al risveglio, uscì dalla grotta e nella luce crepuscolare dell’alba si accorse che il suo corpo aveva ora lo stesso bagliore che avvolgeva l’uomo di ghiaccio.

Lei e il lupo ridiscesero nella valle e Ada si recò dallo scultore.

Quando giunse alla baita fra le betulle, lo scultore le mostrò quello che era rimasto del colosso di legno. Sembrava una bambola, era la sua scultura più piccola, delle dimensioni di una forma di pane. Assomigliava un poco ad Ada, ma lei non se ne accorse. Disse che era bellissima. Ancora però lo scultore non era riuscito a farle gli occhi. Ada gli regalò alcuni piccoli cristalli di quarzo ialino che aveva raccolto nella caverna per lui. Sapeva infatti che lo scultore non sarebbe mai salito fin lassù per vedere coi propri occhi. Non si allontanava mai dal suo bosco, inoltre il cunicolo che portava alla grotta era troppo stretto. Però voleva mostrargli schegge dello splendore. Il volto dello scultore s’illuminò.

Il mattino dopo, lo scultore bussò alla porta della baita. Quando Ada aprì, vide la sua testa incorniciata dalla luce. Lo sguardo dell’uomo era diverso. Sembrava lo sguardo di un bambino di cento anni. Finalmente aveva terminato la scultura. Ora la donnina aveva due occhi di quarzo attraverso cui scrutava nel Tempo. La regalò ad Ada, poi i due si salutarono con un bicchiere di vino.

Ada e il lupo bianco tornarono dall’uomo di ghiaccio. Questa volta Ada aveva portato con sé rami secchi. Accese un fuoco vicino al cuore dell’uomo. Il ghiaccio lentamente si squagliò e divenne fluido. Ada allora, senza lasciare che si sciogliesse del tutto, sprofondò le mani nel ghiaccio molle, come lo stesse frugando nelle interiora, fece un po’ di spazio e infilò la piccola dama di legno. La appoggiò sul petto dell’uomo, poi spense il fuoco con un pugno di neve. In pochi minuti il ghiaccio era già tornato duro come prima. Ora, da dietro la lastra trasparente, la dama di legno vegliava il sonno dell’uomo primitivo e guardava il cielo con occhi di ghiaccio che attraversavano il Tempo. Di notte si sarebbero riempiti di stelle.

Quando il sole scomparve, Ada e il lupo entrarono nel cunicolo, raggiunsero la caverna e di lì scesero per le scale di cristallo.

Esiste, anche se è molto raro, un albero che cresce solo nel Nord, che ha la corteccia liscia e argentata e i cui fiori sbocciano molto prima delle foglie, in pieno inverno, quando il freddo sta per finire e si fa per un attimo ancora più intenso. Lo chiamano la Dama Bianca. Lo sbocciare dei suoi fiori candidi, simili per certi versi a stelle alpine o a giacinti di vetro, segna il punto più freddo dell’anno ma anche la fine del buio. Da quel momento in poi ritorna la luce.

Nella valle dei lupi c’era uno di questi alberi. Quando i suoi fiori sfiorirono la neve inziò a sciogliersi, dappertutto era un gocciolare che si mescolava a nuovi cinguettii di uccelli. Nel giro di pochi giorni arrivarono i guardiaparco per il cambio stagionale.

Non trovarono Ada nella baita, né in giro per la riserva. Mancava anche il lupo bianco.

Gli altri lupi stavano bene, a loro aveva pensato lo scultore. Quando gli chiesero, disse che di Ada non sapeva nulla.

Aveva smesso di scolpire nel legno. Ora amava scolpire nella roccia, anche se era più difficile, occorreva più forza e spesso bisognava lavorare all’aperto, direttamente sul corpo della montagna. In mezzo alla neve che svaniva, comparivano le sue sculture. Anche i soggetti erano leggermente cambiati. Non si trattava più di sole donne, ma di donne grandi con piccoli uomini appoggiati sul cuore. Le donne avevano sempre occhi bellissimi ed espressioni sognanti, gli uomini invece sembravano dormire.

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Meditazione del seme sotto la neve

Questa è una meditazione dolce, che trae ispirazione e insegnamento dalla Natura. E’ perfetta da svolgere nei giorni d’inverno, quando fuori fa freddo, ma può esserci d’aiuto in qualsiasi momento particolarmente buio della nostra vita, o quando sentiamo il bisogno di ritirarci nella nostra tana, per raccogliere le energie e focalizzare i nostri obiettivi, protette da uno strato di neve candida. L’ideale è svolgerla appena sveglie o prima di addormentarsi, anche se qualsiasi momento tranquillo può andare bene.

Siedi per terra a gambe incrociate e sistema il tuo corpo in modo da sentirti comoda, a tuo agio. Per farlo, potrebbe esserti utile infilare un cuscino sotto al coccige, oppure poggiare la schiena al muro.
Spingi leggermente il mento verso il collo e allunga delicatamente la colonna vertebrale, con un dolce stiramento. Fai alcuni respiri profondi, completi, e mentre espiri immagina che, insieme all’aria, anche ogni tensione nel tuo corpo venga sciolta e lasciata fluire fuori di te. A ogni respiro ti senti più rilassata. Se ci sono zone di particolare tensione, concentra su ognuna di esse almeno due o tre respiri, così da attenuarla. Quando ti senti pronta, chiudi gli occhi e lasciati scivolare dentro te stessa.

Sei un seme sottoterra. Un piccolo seme racchiuso e protetto da un duro guscio. La terra scura e tiepida ti accoglie e ti circonda. E’ il tuo giaciglio. Pochi centimetri sopra di te, uno spesso strato di neve ricopre il suolo, isolandolo dal gelo dell’inverno e mantenendo il tepore sotterraneo. Sopra, il paesaggio è costellato da alberi spogli i cui magnifici scheletri ricamano il cielo immenso, basso, bianchissimo come la neve che fra poco ricomincerà a cadere. Tutto questo però tu non lo vedi, puoi solo immaginarlo, perché tu, ora, sei sottoterra. Sei un seme. Sei circondata dall’oscurità e dal silenzio assoluto, ma non hai paura. Questo è un buio riposante, che ti permette di concentrarti su quello che si trova al tuo interno.

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Dentro al tuo guscio duro e perfetto, un miracolo sta preparandosi ad accadere. Ci sono i nutrienti che fra poco sosterranno la tua nascita e c’è il tuo embrione, nato dalla fusione del maschile e del femminile che ti hanno dato origine. C’è il tuo DNA: passato, presente e futuro sono in te riuniti, concentrati in uno spazio piccolissimo e denso, come l’atomo da cui ebbe origine il Big Bang. In effetti, ora che ti osservi meglio, ti accorgi che ciò che si trova all’interno del tuo seme è proprio questo: un universo pronto a esplodere. Sei un seme minuscolo ma dentro di te c’è un caos immenso, concentrato, fertile e potente. La materia non ancora organizzata, in cui tutto è possibile, sta conducendo una lenta danza a vortice e, dalle nebulose, galassie, stelle e buchi neri stanno lentamente prendendo forma. Lo loro danza, come ora piano piano inizi a sentire, produce un suono meraviglioso, una sola nota, una vibrazione di piacere che lentamente diviene più limpida, più forte, e ti percorre tutta.

Sei un seme sottoterra. Al tuo interno, protetto dal tuo duro guscio, un universo splendente si sta preparando a nascere. Sta organizzando le sue forme seguendo il ritmo unico e perfetto di una danza che produce il suono cosmico, la vibrazione di fondo del tuo essere futuro. E’ una vibrazione d’Amore, Amore allo stato puro. Ora, da questo centro minuscolo di energia immensa, focalizza il più chiaramente possibile il tuo intento. Visualizza la forma della pianta che diverrai. La puoi vedere? Non devi pensarla. E’ la tua forma, la forma che spontaneamente nasce dal tuo seme. Eppure, anche se sembra essere nata da sola, comprendi che è proprio lei che desideri, è il tuo destino, la tua missione, ciò che ogni tua cellula brama diventare. L’immensa energia del seme, nata dal Caos cosmico che vortica al suo interno, può adesso concentrarsi su quell’unico punto: il tuo intento.

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La vibrazione che ti pervade si fa sempre più intensa. Dalle nebulose cosmiche che vorticano nel tuo piccolo seme iniziano a emergere sistemi solari, pianeti, satelliti e costellazioni… Ecco, sei quasi pronta. Fra poco, quando la luce aumenterà e la neve in un attimo sarà sciolta, il tuo primo germoglio infrangerà il guscio. Sarà una fogliolina tenera e apparentemente molto debole. Solo tu conoscerai la forza dirompente che la anima, il Caos sublime che l’avrà generata. E quel germoglio pioniere si allungherà attraverso il buio, verso la luce, avventurandosi nel mondo, mentre dal lato opposto la tua prima radice andrà a cercare fuori di te nuovo nutrimento, esplorando il corpo della terra. Fra poco, ma non ancora.

Per ora resta qui. Riposa, raccogli le forze, lascia che il Caos si organizzi al meglio dentro di te, piccolo immenso seme. Goditi ancora un poco il tepore di Madre Terra, mentre la vibrazione dell’Amore ti percorre tutta, levigando la materia dei tuoi sogni. Sei un seme sottoterra. Al sicuro, lasci crescere la tua vibrazione, fino a quando giungerà il momento perfetto.

Quando ti senti pronta, fai un profondo respiro e apri nuovamente gli occhi. Bentornata! Ricorda il tuo seme, che riposa al buio dentro di te e si prepara. Lo senti? Sta proprio lì, sotto alle costole, annidato in mezzo ai polmoni, vicino al tuo cuore. Lo puoi sentire? Senti come vibra piano, quasi impercettibilmente? Tendi le orecchie e udrai il suono dell’Amore. Ascoltalo.

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OM. Shanti. Shanti. Shanti.

 

Isa: la Verità del Ghiaccio

Isa (fonetica “I”) in norreno significa “ghiaccio” e deriva dalla stessa radice dell’inglese ice.

Di questa runa non esiste la posizione capovolta e questo indica che il suo significato è sempre velato di ambiguità: l’estrazione di Isa non è mai un segno fausto né infausto di per sé.

In un poema runico islandese si dice che Isa, il ghiaccio, è la corteccia dei fiumi. Quest’immagine suggestiva ci rimanda a un processo di cristallizzazione, solidificazione e concentrazione: la corteccia è la scorza esterna dell’albero, la parte dura che protegge l’interno vivo e fluido. Da questo punto di vista Isa rappresenta l’indurimento esterno, un atteggiamento di protezione e chiusura. In effetti, già con la sua semplice forma, questa runa ci parla di isolamento dal mondo, di essenzialità e ritiro in se stessi, è una runa “invernale”, che invita alla meditazione e alla contemplazione del vuoto.

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Isa significa distacco, morte esteriore, solitudine, riflessione. Il ghiaccio è anche la parte esterna, superficiale dei corsi d’acqua in inverno, e luccica al sole come uno specchio. Fa pensare quindi al concetto di illusione com’è intesa per esempio nella cultura buddista: Maya è il velo che ricopre la Realtà impedendoci di percepirla per come è veramente, il teatro di finzione che inganna i nostri sensi imprigionandoci nel dolore di samsara, l’eterno ritorno. Per uscirne, occorre seguire l’insegnamento del Buddha: praticare l’arte del distacco, del ritiro in se stessi e al tempo stesso dell’espansione della mente oltre le apparenza del mondo fisico.

Sul ghiaccio si può scivolare. Isa ci indica quindi anche un percorso pericoloso, da affrontare con circospezione e lentezza.

Isa rappresenta il lutto e della sua elaborazione: per superare il dolore dobbiamo lasciare andare ogni attaccamento a cose e persone, focalizzandoci nell’eterno presente rappresentato da questa runa: un sottile ponte tra Terra e Cielo, tutto concentrato nell’Adesso.

La divinità collegata a Isa è la Norna Verdandi, una delle tre sorelle del Destino. Mentre Urd è il Passato e Skuld il Futuro, Verdandi è il Presente, il Qui-e-Ora, l’unica cosa che esiste davvero per colui che medita.

Le tre Norne

Le tre Norne

L’estrazione di questa runa ci mette in guardia da un dispendio di energie poco oculato, ci avvisa che stiamo attraversando il nostro inverno e che ci conviene risparmiare le nostre energie e guardare dentro noi stessi. Dobbiamo fermarci, lasciare che una lastra di ghiaccio ricopra e protegga il fluire della vita dentro di noi, in attesa della primavera. Ci consiglia di coltivare la solitudine, di imparare ad apprezzare i pregi dell’isolamento, di prendere dimestichezza con il distacco dalle cose del mondo, che sono impermanenti, frutto e causa di dolore.

Isa ci dice di aspettare, non compiere mosse avventate ma riflettere, senza temere l’apparente fine delle cose, connettendosi con il proprio centro, che è anche il centro dell’Universo.

Questa runa è legata al colore bianco, al freddo e all’immobilità. Secondo il runologo Edred Thorsson Isa rappresenta anche l’antimateria, contrapposta a Fehu che è l’abbondanza sempre rigenerata della vita. Isa è energia centripeta, concentrata in se stessa fino a divenire un potente centro di attrazione e annullamento al tempo stesso.

Nel tempo ciclico, che è il vero tempo del mondo, gli opposti si avvicendano come aspetti della medesima cosa. L’espirazione segue all’inspirazione così come la notte segue al giorno e la morte alla vita. Isa rappresenta il momento di vuoto, l’apnea tra un respiro e l’altro, la morte apparente della natura in inverno a cui farà inevitabilmente seguito la rinascita primaverile.

E’ un tempo di attesa che ci viene offerto non per disperare ma per conoscerci meglio. Solo conoscendo le profondità di noi stessi infatti impariamo a conoscere Dio.

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Approfittiamo dunque di questa stasi, del ghiaccio che ci circonda, avvolgiamoci in noi stessi ed immergiamoci nel nostro paesaggio interiore. Impariamo a scendere oltre lo strato luccicante, oltre il velo dell’illusione, a guardare in faccia il vuoto che ci costituisce. Diventiamo forti, lasciamo che l’isolamento ci tempri: solo quando sapremo stare da soli, potremo stare bene anche insieme agli altri. Accettiamo di morire al dolore, lasciamo andare ciò che è morto. Vediamo cosa rimane. Quello che resta è la nostra essenza, ciò che non ci potrà mai essere tolto e che come un ponte ci collega all’Uno Infinito. Concentriamoci, raccogliamoci nel nostro centro fino a scomparire nella sua luce bianca. In questo consiste la meditazione in fondo: nello smettere di pensare per essere uno nel qui e ora. Morti, più che mai vivi.

Parole chiave: ghiaccio, meditazione, isolamento, vuoto, distacco, concentrazione, eterno presente

Divinità che la presiedono: la Norna Verdandi e la dea Hel, figlia di Loki

Chakra: VI

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Per approfondire:

-Bellini G., Galimberti U., Runemal – Il grande libro delle Rune, L’Età dell’Acquario, Torino 2009

-Thorsson E., Futhark – A Handbook of Rune Magic, Red Wheel/Weiser, San Francisco 1983

-Thorsson E., Runelore, Red Wheel/Weiser, San Francisco,1987

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