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Inverno

Le stagioni che preferiva erano l’autunno e l’inverno, quando la Terra inspirava e poi tratteneva il respiro. Mentre le forze del sottosuolo imperversavano, sopra tutto era calmo, rimanevano poche cose, il cielo si avvicinava come per sentire un segreto. La luce obliqua rendeva le ombre sensibili, dando nuova tridimensionalità alle pietre, ai rami scuri, alle foglie sfiorate dal freddo, all’acqua che diventava cristallo. Cresceva il muschio, l’aria profumava di tempo senza fine e c’era silenzio. Arrivava la neve. Una cosa che non le piaceva d’inverno era la pioggia. La pioggia era meglio d’estate.

Lì dov’era non cadevano foglie. Gli alberi erano tutti pini e abeti dai tronchi possenti, alcuni vecchi di secoli. Il sole si muoveva veloce su e giù nel cielo e la luce cambiava in continuazione.

Quest’anno, Ada sarebbe rimasta a guardia della riserva durante i mesi freddi. Fino all’arrivo della primavera avrebbe vissuto nella baita tra gli abeti, con la sua provvista di legna e un corriere che una volta ogni dieci giorni portava le scorte di cibo. Per bere avrebbe usato l’acqua della fonte. Nella riserva vivevano venti lupi.

Ada aveva i capelli neri, lunghissimi e lisci, la pelle bianca, i seni minuscoli, gli occhi verdi a fessura. Era piccola e forte. Suo padre era un eskimese e le aveva insegnato a fare il fuoco.

La prima neve cadde a ottobre. La terra coperta di aghi e neve era un animale sognante. Ada girava il bosco secondo schemi geometrici. Raccoglieva rami, pigne, pietre, incontrava i lupi. I lupi la riconoscevano ormai, e non avevano paura. Uno di loro era tutto bianco con gli occhi neri ed era finora quello che aveva osato andarle più vicino, fino quasi a sfiorarla col muso. Un altro, il lupo più vecchio, stava sempre da solo e aveva il pelo grigio e folto e gli occhi verde acqua. Zoppicava leggermente. Quando la vedeva si metteva dietro il tronco di un albero e la osservava inclinando la testa. Ada dava da mangiare ai lupi, lasciando la carne in mangiatoie. I lupi sapevano che era lei a portare il cibo, la controllavano di nascosto. C’erano undici femmine. Le femmine erano più piccole e meno ossute dei maschi, molto più prudenti.

La baita era accogliente, profumata. Il camino funzionava alla perfezione e il letto era sul soppalco, un nido bianco di piume. Dalla finestra Ada poteva guardare i boschi e la valle, dove il torrente diventava fiume roccioso. Sullo stesso versante della montagna ma più in basso viveva lo scultore. Era l’unico a vivere nella riserva, oltre ad Ada. Aveva ricevuto un permesso speciale perché lui viveva già lì quando la riserva era stata fatta. Il corriere che portava le provviste si fermava da lui e lasciava lì il cibo per entrambi, senza salire fino alla baita dove stava Ada. Spesso, Ada e lo scultore mangiavano insieme. Lui sembrava meno vecchio di quanto fosse. Aveva la barba brizzolata, camicie a quadri, era un uomo forte. Un bravo scultore. Scolpiva il legno senza abbattere gli alberi. Si limitava a raccogliere i ceppi e i tronchi che trovava per terra durante lunghissime escursioni nei boschi. Ada l’aveva visto lavorare, erano diventati amici. Una volta che trovava un pezzo lo osservava a lungo con i suoi occhi luminosi. Poi, lentamente ma con decisione, inziava a scalpellare e tirava fuori dal legno la sua forma nascosta. Si trattava sempre di figure di donna.

Quel mattino l’aria tagliava il fiato e il cielo stava di traverso tra le cime degli abeti altissimi e neri, conficcati nella roccia come lance di titani. Il sole era uno spillo e la neve si smagliava e scivolava fino a valle. Ada uscì dalla baita e venne trafitta dalla luce accecante di mille riflessi di ghiaccio, mentre inspirava l’aria fredda da bruciarle narici e gola. Quel gelo all’interno la faceva sentire eterna in quell’istante, sigillava, rendeva perfetto il respiro. Si mise lo zaino in spalla e corse alla fonte. Bevve l’acqua direttamente dalla roccia da cui sgorgava ed era come bere cristallo. Finito il giro delle mangiatoie, decise di salire fino al piccolo altopiano dove c’erano le sorgive. Ci volevano quasi due ore di cammino in salita per arrivare, poi tra gli alberi si apriva uno spiazzo scosceso dove nella neve ribollivano tre pozze, due più piccole e una un po’ più grande. L’acqua arrivava lì direttamente dalle interiora della Terra, era antica e appena nata e odorava di minerali attraversati a fatica. Ada si tolse i vestiti ed entrò nella pozza più grande. L’acqua gorgogliava, c’era vapore e odore di zolfo. Ada si lasciò sommergere dalla luce del mattino e dal tepore della Terra. Sotto ai piedi sentiva la roccia liscia come metallo. A volte, una Voce risuonava nel cielo e faceva vibrare l’aria. Quel mattino però tutto quello che si sentiva era il borbottìo delle sorgive. Il resto era silenzio, dentro e fuori Ada. Un silenzio maestoso e riposante. Quando il sole si fu spostato di dieci gradi, Ada uscì dalla pozza. Nuda sulla neve era altrettanto bianca. Il corpo lucido che si rivestiva veniva osservato da due lupi nascosti fra i tronchi. Ada non se n’era era accorta ma l’avevano seguita. C’era sempre qualche lupo che ne studiava i movimenti, per proteggerla. Il ritorno a casa fu più rapido perché in discesa.

Lo scultore aveva mani quadrate e unghie coriacee. Masticava in silenzio bevendo vino scuro. Lui e Ada mangiavano insieme funghi del bosco e formaggio. Il pane profumava. Nessuno dei due diceva niente. Dietro alle spalle dello scultore, su una pedana, stava un enorme pezzo di legno ricoperto di muschio e licheni, ingombrante e odoroso come un relitto. Lo scultore aveva passato la mattina a osservarlo e lo stesso avrebbe fatto quel pomeriggio. Avrebbe osservato e ascoltato quel meteorite di corteccia bevendo vino fino a sera, fino all’alba, fino a che dietro ai suoi occhi non avesse cominciato a emergere la forma nascosta. Anche se le sculture non erano in vendita, quello era il suo lavoro e lo amava.

Stambecchi e caprioli dovevano fare attenzione nella riserva dei lupi, ma ce n’erano comunque. I cerbiatti avevano il mantello macchiato che li mimetizzava nella neve. Avevano occhi intelligenti e nasi neri e umidi. Ada quando li vedeva rimaneva immobile senza respirare e li osservava stringendo gli occhi per mettere a fuoco ogni dettaglio.

Quando c’era il sole e Ada si metteva fuori dalla baita a intrecciare ramoscelli per fare ceste, a volte arrivava il lupo bianco. Usciva allo scoperto e si accovacciava sul limite degli alberi, a dieci metri da lei. La guardava lavorare. Il suo pelo luccicava come la neve. I caprioli e i cerbiatti sfrecciavano nell’ombra intorno.

Le radici degli abeti sostenevano la terra e le impedivano di scivolare. Le loro radici possenti e sottili si insinuavano nella roccia, creando microscopiche fessure che riempivano di se stesse.

Lo scultore viveva in una baita alla fine dell’abetaia, dove inziavano a esserci anche betulle e castagni. Il legno di betulla era il suo preferito. Flessuoso, umido, con la corteccia simile alla pelliccia di un animale. Quando decideva di lavorare il legno di betulla, doveva prima lasciarlo seccare per giorni davanti al fuoco, e il legno sospirava. Spesso durante i sogni lo scultore veniva visitato dalla Donna Betulla. Era lo spirito dell’albero, al posto dei capelli aveva una chioma di foglie minute, alcune verdi e alcune gialle. Lo sfiorava con i suoi piedi bianchi e gli parlava, ma anziché udire parole lo scultore vedeva forme, forme in cui la donna si trasformava dinanzi a lui.

Lo scultore assomigliava a un lupo. Le basette erano da lupo, gli occhi verde muschio con le piccole pupille, il collo grosso, leggermente incassato, l’andatura elastica, spensierata sulle gambe lunghe, proprio come quella dei lupi, che quando camminavano sulla neve sembravano saltellare e questo contrastava con l’espressione concentrata dei loro musi.

In fondo i lupi erano animali allegri.

Il giorno del solstizio il lupo bianco non c’era. Ada lo cercò disegnando rombi nella neve, esplorando sistematicamente i luoghi della riserva in cui a lui piaceva andare, senza trovarlo, finché non giunse il buio. Quella notte non dormì. Vide dalla finestra della baita l’aurora boreale che verdeggiava nel cielo, fiamme di elettricità danzavano sulla volta scura e l’aria vibrava di un suono profondo e possente, come se la Voce stesse cantando un canto immenso, di una sola nota.

Il lupo bianco tornò due giorni dopo. Nel suo sguardo qualcosa era cambiato, o forse era solo un’impressione di Ada. In quel posto, come sempre durante l’inverno, le impressioni si confondevano con l’ambiente circostante, rendendo impossibile, a un certo punto, distinguere tra ciò che succedeva dentro e ciò che succedeva fuori della testa di Ada. La sua mente era la riserva dei lupi.

Nel giorno di Capodanno la linfa ricominciò a salire nel legno degli alberi, prima timidamente, poi sempre più forte.

Da giorni lo scultore provava invano a scolpire nel legno l’immagine di donna che aveva sognato. E l’enorme pezzo di legno, il tronco vivo ricoperto di muschio e licheni davanti a cui lo scultore trascorreva ore di veglia e di sogno, andava sempre più rimpicciolendosi sotto i colpi della sega elettrica e dello scalpello. Ogni volta gli sembrava di stare per farcela, di essere quasi giunto alla fine: scolpiva il corpo, i capelli, il seno, le mani, l’ombelico, il naso ma poi, arrivato agli occhi, si bloccava e non riusciva a proseguire. La Donna non era cieca. Nel sogno i suoi occhi erano visibili, indimenticabili. Lo scultore li vedeva chiaramente, ma non riusciva a tirarli fuori dal legno. Ogni volta falliva e doveva cancellare tutto, segare via in trucioli il lavoro fatto, ridurre il relitto di legno di nuovo a un ceppo informe e ricominciare: piedi, polpacci, ginocchia, cosce, fianchi, ventre, pube, ombelico, costato, seni, capezzoli, sterno, clavicole, spalle, braccia, mani, collo, la Donna era bellissima, bella come non mai anche se grezza, robusta, profondamente donna. Mento, labbra, mandibole, naso, fronte, orecchie, capelli lunghi di foglie. Tutto era perfetto, affiorava dal legno come una visione. Mancavano solo gli occhi. Lo scultore ci provava, e falliva, di nuovo. Beveva un bicchiere di vino scuro, ravvivava il fuoco con ceppi d’abete, lanciava sguardi rabbiosi alle stelle vicine e poi ricominciava, senza mai dormire. Il suo lavoro era il suo sogno. Gli occhi della Donna gli sfuggivano dalle mani come polline in primavera.

Il lupo bianco spariva sempre più spesso. Ada aveva smesso di preoccuparsi, ma era curiosa.

Un mattino, dopo che era stato via per cinque giorni, Ada uscì dalla baita e lo trovò seduto al margine dell’abetaia, a pochi metri da lei. Quando lui la vide si alzò e le andò incontro, come un cane. La guardò per qualche secondo, lo sguardo fisso nel suo e la coda ritta, poi si voltò e cominciò ad allontanarsi. Ada lo seguì. Il lupo si lasciava seguire, saltellando nella neve fresca e soffice. Il cielo era coperto, prometteva altra neve.

Il lupo bianco camminava verso nord, dove finiva il bosco. Il limite della riserva non era segnato da reti o cancelli, ma solo da cartelli e da una fila di abeti che si stagliavano ordinati per diversi chilometri. I lupo li oltrepassò, seguìto da Ada. Non era ancora mai stata lassù. Dopo gli abeti, la montagna diventava più scoscesa. Ada e il lupo si inerpicarono insieme, sempre più vicini alle nuvole. Ogni tanto il lupo si voltava e la guardava, rassicurandola.

Salendo, la neve diventava ghiaccio perenne, da cui spuntava roccia nera come meteorite. Gli sprazzi di sereno fra le nuvole erano diamanti sopra alla testa di Ada.

Dopo tre ore di ripido cammino, Ada e il lupo arrivarono su uno sperone di roccia ghiacciata, un’insenatura che formava una sorta di balcone nel fianco della montagna, affacciato sul vuoto, e lì c’era lui.

Al centro dello sperone si apriva una finestra di ghiaccio in cui, sdraiato come in una tomba, c’era un uomo. Il lupo gli sedette vicino. Ada s’inginocchiò di fianco al lupo e osservò. L’uomo era vestito come un eskimese, con abiti di pelliccia e cappuccio. I lineamenti del volto, la forma delle calzature, la faretra appoggiata sul fianco, erano quelli di un un uomo primitivo. Un uomo che dormiva da secoli, da solo lassù, le mani appoggiate sul ventre, il volto sereno. Era integro, incastonato nell’inverno della montagna. Forse il suo cuore avrebbe anche ripreso a battere, se il ghiaccio si fosse sciolto. Ada e il lupo lo guardavano in silenzio, lassù dove non volavano uccelli e dove la neve cadeva fitta e lenta. Si potevano udire i battiti del proprio cuore e il respiro era fatto di spilli. La valle dei lupi sotto di loro era immersa nel bianco.

Quando Ada riaprì gli occhi, era buio. Doveva essersi addormentata accanto all’uomo di ghiaccio. Le lingue verdi dell’aurora boreale le lambivano i capelli coperti di brina. Non sentiva più i piedi, il lupo non c’era. Dalla finestra trasparente in cui giaceva l’uomo si diffondeva una fosforescenza azzurrina, come un bagliore cosmico, ma proveniente da dentro la Terra e dall’uomo stesso. Con il buio tutto intorno e la luce che sprigionava, Ada poteva vederne meglio i dettagli. L’uomo aveva baffi sottili e una cicatrice profonda sullo zigomo destro. Le ciglia lunghe gli davano un’espressione triste. La pelliccia che indossava era di un colore meticcio, un po’ bianca, un po’ nera e un po’ marrone, sarebbe potuta appartenere a un lupo. Al collo l’uomo aveva un cordoncino da cui pendeva una lunga zanna gialla. Ada non conosceva nessun animale, tra quelli non ancora estinti, che potesse avere una zanna del genere.

La fascinazione con cui osservava l’uomo fu interrotta dal pensiero che il freddo l’avrebbe uccisa, così come centinaia di migliaia di anni prima aveva ucciso lui. Il gelo l’avrebbe resa la sua sposa di ghiaccio. Il naso le doleva, e così anche le mani. Se avesse avuto con sé anche solo qualche ramo, avrebbe saputo accendere un fuoco, come le aveva insegnato suo padre. Ma lassù non c’era niente di vivo, a parte lei, solo roccia e neve. Ada sentì un gelido artiglio sfiorarle il cuore e alzò lo sguardo al cielo verde, danzante e vicino come mai. Il giorno è della terra, la notte è del cielo, pensò. Poi udì il rumore di una zampa che raspava contro il ghiaccio, si voltò e vide il lupo bianco alle sue spalle. Il pelo scintillava di brina nel buio, gli occhi luccicavano come stelle. Le parve ancora più grosso del solito, una creatura soprannaturale. Quando il lupo si mosse, Ada lo seguì. Poco distante, subito dietro lo sperone, c’era un buco nella montagna. Era piccolo, Ada ci sarebbe passata a mala pena carponi. Il lupo entrò strisciando, Ada lo seguì. Dentro sarebbe stato meno freddo.

Dopo una lunga galleria buia e stretta, giunsero nella caverna. Il cunicolo sboccava in una grotta circolare, piuttosto ampia e stranamente luminosa, dove c’era un tepore accogliente. Gli occhi di Ada vennero riempiti dal baluginare di centinaia di cristalli di quarzo che tappezzavano le pareti della caverna. Sembrava che, a quella profondità, la montagna stessa fosse fatta di cristallo. La luce accumulata nella silice milioni di anni prima, in ere geologiche durante le quali i cristalli non erano che magma incandescente, ora si sprigionava dai quarzi diffondendo nella caverna una luce ultraterrena. Tutta la grotta sembrava fatta di ghiaccio perfetto, che però invece di essere gelido era tiepido, di un tepore primordiale e materno. Era il cuore della montagna, il cuore dell’inverno, dov’era custodito il segreto della luce. Un soffio d’aria proveniente da chissà dove soffiò tra i cristalli, producendo un sibilo che ricordò ad Ada la Voce che a volte risuonava per la valle dei lupi. Nella caverna c’erano cristalli di quarzo ialino di ogni dimensione. Per terra c’erano i pezzi più piccoli, che formavano una polvere luccicante. Al centro giaceva un enorme cristallo di quarzo rosa, l’unico e il più grosso di tutti, posato in orizzontale come fosse un altare. Era da lì che si sprigionava la luce più forte. Ci dovevano essere voluti milioni di anni per formare un cristallo di quelle dimensioni. In fondo alla caverna, nella parte opposta a quella da cui Ada era entrata, c’era una soglia, un’apertura da cui partiva una scalinata incisa nel quarzo che andava ancora più in profondità. Ada avrebbe voluto scendere per vedere dove portasse, ma ora si sentiva troppo debole. Si sdraiò sul quarzo rosa e percepì un’onda di calore invaderle il corpo. Poi cadde in uno stato tra la veglia e il sonno e forme luminose danzarono davanti a lei. Il lupo, seduto tra i quarzi, la osservava.

Le scale di cristallo avrebbero potuto condurla al centro della Terra. Forse laggiù c’era Atlantide, o una dimensione popolata da esseri di luce. In effetti, pensò Ada in bilico tra i sogni, anche io sono luce.

Al risveglio, uscì dalla grotta e nella luce crepuscolare dell’alba si accorse che il suo corpo aveva ora lo stesso bagliore che avvolgeva l’uomo di ghiaccio.

Lei e il lupo ridiscesero nella valle e Ada si recò dallo scultore.

Quando giunse alla baita fra le betulle, lo scultore le mostrò quello che era rimasto del colosso di legno. Sembrava una bambola, era la sua scultura più piccola, delle dimensioni di una forma di pane. Assomigliava un poco ad Ada, ma lei non se ne accorse. Disse che era bellissima. Ancora però lo scultore non era riuscito a farle gli occhi. Ada gli regalò alcuni piccoli cristalli di quarzo ialino che aveva raccolto nella caverna per lui. Sapeva infatti che lo scultore non sarebbe mai salito fin lassù per vedere coi propri occhi. Non si allontanava mai dal suo bosco, inoltre il cunicolo che portava alla grotta era troppo stretto. Però voleva mostrargli schegge dello splendore. Il volto dello scultore s’illuminò.

Il mattino dopo, lo scultore bussò alla porta della baita. Quando Ada aprì, vide la sua testa incorniciata dalla luce. Lo sguardo dell’uomo era diverso. Sembrava lo sguardo di un bambino di cento anni. Finalmente aveva terminato la scultura. Ora la donnina aveva due occhi di quarzo attraverso cui scrutava nel Tempo. La regalò ad Ada, poi i due si salutarono con un bicchiere di vino.

Ada e il lupo bianco tornarono dall’uomo di ghiaccio. Questa volta Ada aveva portato con sé rami secchi. Accese un fuoco vicino al cuore dell’uomo. Il ghiaccio lentamente si squagliò e divenne fluido. Ada allora, senza lasciare che si sciogliesse del tutto, sprofondò le mani nel ghiaccio molle, come lo stesse frugando nelle interiora, fece un po’ di spazio e infilò la piccola dama di legno. La appoggiò sul petto dell’uomo, poi spense il fuoco con un pugno di neve. In pochi minuti il ghiaccio era già tornato duro come prima. Ora, da dietro la lastra trasparente, la dama di legno vegliava il sonno dell’uomo primitivo e guardava il cielo con occhi di ghiaccio che attraversavano il Tempo. Di notte si sarebbero riempiti di stelle.

Quando il sole scomparve, Ada e il lupo entrarono nel cunicolo, raggiunsero la caverna e di lì scesero per le scale di cristallo.

Esiste, anche se è molto raro, un albero che cresce solo nel Nord, che ha la corteccia liscia e argentata e i cui fiori sbocciano molto prima delle foglie, in pieno inverno, quando il freddo sta per finire e si fa per un attimo ancora più intenso. Lo chiamano la Dama Bianca. Lo sbocciare dei suoi fiori candidi, simili per certi versi a stelle alpine o a giacinti di vetro, segna il punto più freddo dell’anno ma anche la fine del buio. Da quel momento in poi ritorna la luce.

Nella valle dei lupi c’era uno di questi alberi. Quando i suoi fiori sfiorirono la neve inziò a sciogliersi, dappertutto era un gocciolare che si mescolava a nuovi cinguettii di uccelli. Nel giro di pochi giorni arrivarono i guardiaparco per il cambio stagionale.

Non trovarono Ada nella baita, né in giro per la riserva. Mancava anche il lupo bianco.

Gli altri lupi stavano bene, a loro aveva pensato lo scultore. Quando gli chiesero, disse che di Ada non sapeva nulla.

Aveva smesso di scolpire nel legno. Ora amava scolpire nella roccia, anche se era più difficile, occorreva più forza e spesso bisognava lavorare all’aperto, direttamente sul corpo della montagna. In mezzo alla neve che svaniva, comparivano le sue sculture. Anche i soggetti erano leggermente cambiati. Non si trattava più di sole donne, ma di donne grandi con piccoli uomini appoggiati sul cuore. Le donne avevano sempre occhi bellissimi ed espressioni sognanti, gli uomini invece sembravano dormire.

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Betulla: la Triplice Dea dei Nuovi Inizi

Nome: Betula pendula (o alba), famiglia delle Betulaceae.

Il nome latino è una forma vezzeggiativa del nome gaelico dell’albero: beith.

Il nome inglese invece, birch, così come il vichingo birk e l’antico alto tedesco birka derivano molto probabilmente dalla radice indoeuropea bher(e)g, da cui tra l’altro deriva anche il sanscrito bhurja, e che significa “brillare”, oppure “bianco, splendente”.

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Botanica: Tutte le Betulle provengono dall’emisfero nord della Terra. Il rimboschimento dopo l’era glaciale iniziò proprio dalle Betulle. Oggi la Betulla bianca cresce quasi in tutta Europa. Nelle radure forestali è lei ad avviare la successione ma n genere finisce per soccombere alla concorrenza di altre specie arboree. Solo su lande e aree isolate riesce ad affermarsi in modo duraturo. La sua altezza non supera quasi mai i 25 metri.  Ha una chioma leggera di foglie dalla forma di asso di carta da gioco (da romboidale a rotonda-triangolare) che compaiono molto presto in primavera (la Betulla e il Sambuco sono i primi a mettere le foglie). Contemporaneamente alle foglie, sui suoi rami flessuosi compaiono anche i fiori, su ogni albero sia maschili che femminili. Gli amenti maschili sono penduli e si sviluppano sui rami dell’anno precedente, mentre quelli femminili, rivolti verso l’alto, crescono sui rami dell’anno in corso. Il polline della Betulla (a cui non poche persone sono allergiche) è abbondante e polveroso e si diffonde facilmente tramite il vento.

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Dopo che il fiore femminile è stato impollinato, l’amento fruttifero giunto a maturazione si disgrega, liberando piccole noci fornite di due ali che possono raggiungere lunghe distanza con l’aiuto del vento, colonizzando velocemente vaste aree. Solo con il tempo, però, le Betulle creano dense foreste. I compagni preferiti sotto la loro chioma leggera sono i prati e in seguito, quando il terreno lo permette, come per esempio le Querce. Poiché non vive molto a lungo (80, 100 o al massimo 120 anni), e poiché molti germogli avvizziscono sotto l’albero madre, sempre nuovamente la Betulla lascia spazio ad altri alberi, dopo aver migliorato il terreno in loro favori tramite le sue foglie che già alla fine dell’estate ingialliscono e cadono al suolo facilmente, formando una coperta fertilizzante per la Terra; e grazie alle sue radici sottili e sensibili che arieggiano il terreno, scambiando energia e ospitando micorrize e altre creature del suolo.

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Il legno della Betulla è duttile e leggero ma al tempo stesso resistente: questo lo rende adatto alla costruzione di mobili, attrezzi sportivi come gli sci, ed eliche. Anche il fuoco che produce è molto utile, perché si accende con facilità, anche se fresco (per via della presenza abbondante di catrame nella corteccia) e può bruciare in campo aperto senza produrre scintille.

Oltre alla chioma ariosa di foglie singole e generalmente minute, quasi cuoriformi, che vibrano al vento, un’altra importante caratteristica distintiva della betulla è senza dubbio la sua corteccia magnifica, tipicamente bianca cartacea a strisce orizzontali, con squarci neri di forma diamantata (in altre varietà di Betulla si può trovare anche marrone o addirittura nera però), ricca di catrame che la rende buona da bruciare ma anche impermeabile. Per questo veniva impiegata dai Nativi Americani per la costruzione dei tetti delle loro abitazioni, le wigwam, o per la costruzione di canoe. Anche le popolazioni del Nord Europa ne facevano e ne fanno tutt’oggi uso per la coibentazione dei tetti delle abitazioni tradizionali.

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Il colore bianco della corteccia, che ricopre un il colore rosso che sta al di sotto, è dovuto a cristalli di betullina incolori, che riflettono la luce del sole insieme all’aria contenuta nelle cellule.

I suoi rami principali crescono in verticale, mentre quelli secondari sono penduli. Tutti i rami durante l’inverno acquistano una tonalità violacea e sono ricoperti di uno strato di cera viola che dà alla Betulla una grande resistenza al freddo e al brutto tempo.

Mentre il legno di Betulla marcisce piuttosto in fretta, la corteccia si può conservare molto più a lungo. Per questa ragione può capitare di trovare, nei boschi, cilindri di corteccia di Betulla svuotati del loro contenuto.

Essendo un albero pioniere, la Betulla riesce a colonizzare bene i terreni incolti o che sono stati devastati da incendi. Può crescere su terreni pietrosi, sabbiosi e brughiere acide. Il suo sistema di radici poco profonde indica che non si aspetta molto dal suolo. I pochi minerali di cui ha bisogno vengono elaborati dai funghi che spesso le fanno gradita compagnia.

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La Betulla è un albero con un alto grado di adattabilità, che ben sopporta terreni umidi (grazie al fatto che le sue radici, non andando in profondità, non soffrono di asfissia a causa dell’acqua), acidi, brulli, poveri. E’ molto fertile e produce molti semi che sparge grazie all’aiuto del vento. E’ una coraggiosa colonizzatrice di terre estreme, una portatrice di vita. L’unica cosa di cui non può fare a meno è la luce. La luce che dona il colore al suo tronco e che fa danzare le sue foglie. La Betulla non sopravvive infatti in contesti boschivi troppo bui, se altri alberi crescono troppo vicino a lei, soccombe. O meglio, i suoi semi volano altrove, alla ricerca di nuove lande da fecondare, nuove terre in cui aprirsi alla luce e riflettere la sua gioia tutt’intorno.

Tuttavia non sono rari i boschi di Betulle, in cui i tronchi aggraziati di questi alberi crescono uno di fianco all’altro come sorelle. Le cortecce bianche donano un aspetto fantasmagorico a questi boschi, un’atmosfera fatata. Non per niente la betulla viene anche chiamata la Signora Bianca e in Irlanda e nel Galles è spesso associata al mondo delle Fate o all’altro mondo, Tir na nOg.

Spesso infine, si trovano anche Betulle gemelle, cresciute a gruppi di due o, più di frequente, tre tronchi con base comune.

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Trovare tre Betulle “siamesi” ha sempre qualcosa di magico: la Betulla infatti è un albero strettamente legato al culto del femminile e della Grande Dea, soprattutto nella sua forma triplice: Bianca, Rossa e Nera. La corteccia della betulla presenta tutti e tre i colori della Dea e quindi incontrare tre Betulle gemelle indica chiaramente che si è in presenza di una manifestazione della Dea e che il luogo in cui ci si trova è sacro.

Mitologia e storia: La Betulla è considerata un albero sacro presso numerose civiltà dell’emisfero boreale ed è da sempre stata una compagna fidata e ispiratrice dell’uomo.

Da un lato è l’albero sciamanico per eccellenza presso varie tribù siberiane, come i Buriati e i Samoiedi Avam, protagonista dei rituali di iniziazione sacri e vista come una scala su cui arrampicarsi per entrare nell’Altromondo, il mondo dei Morti e degli Spiriti dove il corpo dell’aspirante sciamano sarebbe stato fatto a pezzi, cucinato e rimesso insieme in modo diverso, ora dotato di poteri di guarigione e di una sapienza misterica; segnato per sempre da una ferita inguaribile che lo separa dal resto dell’umanità ma al tempo stesso gli dona una seconda Vista, un secondo Udito, la capacità di comunicare con gli Spiriti, di viaggiare nel tempo  nello spazio, superando la morte per recuperare frammenti di anime andati perduti, schegge di conoscenza nascoste fra i mondi. Lo sciamano è una creatura a metà fra l’aldiqua e l’aldilà, fra la vita e la morte. Non è più un uomo normale ma è un mago, in grado di influenzare la Realtà con la sua mente, che ha superato il concetto di separazione, di limite, e pertanto può qualsiasi cosa, poiché è in intimo contatto con le forse della Natura, è un tutt’uno con esse e ne è profondamente consapevole.

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La Betulla è la madrina dei rituali iniziatici degli sciamani siberiani, che la considerano l’asse del mondo, nonostante non sia un albero di grandi dimensioni. Ma la Betulla è anche un albero-fantasma, un albero-spirito, permeata di luce e aria, bianca e ricoperta di occhi neri, stagliata sola in mezzo a campi di neve, riflettendo la luce con la sua corteccia che si squama come il corpo di un serpente e le sua foglie che tremano al minimo soffio di vento. E’ un albero di confine, la cui chioma che balugina controluce sotto i cieli del Nord può apparire come un occhio che si apre e si chiude, come una porta per un altra dimensione. E’ facile quindi comprendere come mai gli sciamani siberiani le identificano come una scala che conduce nell’Altromondo. Una volta in cime a una Betulla, si scompare nella Luce.

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Oltre a comparire nei rituali, la Betulla compare come albero magico anche in numerosi sogni iniziatici in cui il futuro sciamano, affetto da una malattia apparentemente incurabile e da febbre alta, viene trasportato in viaggi astrali durante i quali incontra gli Spiriti dell’aldilà che gli insegnano a curare.

Il legno di Betulla ha inoltre la caratteristica di modulare molto bene i toni alti con quelli bassi e per questa ragione viene spesso usato, fin dall’antichità, come legno per costruire tamburi.

Questa qualità di albero limitare, di confine tra i mondi, caratterizza la Betulla anche presso le culture di origine celtica, dove è considerata un albero delle fate, nei pressi del quali dimorano spiriti magici o spettri.

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Oltre ad essere l’albero degli sciamani, la betulla è però anche l’albero della Grande Dea, in moltissime culture associata al principio femminile, probabilmente per via della sua grazia e leggerezza, della sua grande fertilità, del suo coraggio e della sua forza, del suo amore per la luce.

E’ un albero consolatorio, generoso, dotato di un grande slancio vitale.

E’ l’albero di Freya, dea della fecondità e dell’amore presso la cultura norrena; di Venere presso i Romani; di Berchta, di Brigit, di Ostara, di Cerridwen; Sarasvati, dea hindu delle acque, viene spesso rappresentata seduta a gambe incrociate su un fiore di loto, con in una delle mani una corteccia di Betulla su cui sono scritti versi dei Veda.

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Infatti, la corteccia di Betulla, per via della facilità con cui si stacca dal tronco e della sua conservabilità, è stato uno dei più antichi supporti per la scrittura in Russia e nel nord dell’India. I più antichi reperti dei Veda che abbiamo sono scritti su corteccia di Betulla.

Durante Beltane, una delle quattro feste stagionali celtiche che si celebrava il 1 maggio di ogni anno, le coppie di amanti andavano a fare l’amore nei boschi di betulle.

Sempre durante la festa della Primavera oppure della Pentecoste, i giovani portavano ghirlande di Betulla alle ragazze che amavano.

La Runa Berkana deriva il suo nome dalla Betulla, la cui energia rappresenta. Berkana è il principio femminile di maternità ed eterna fluidità, di nascita e rinascita; è l’anima della Natura, il Nuovo Inizio, la concretizzazione.

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Beith è inoltre la prima lettera dell’alfabeto arboreo oghamico.

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Ma oltre ad essere simbolo di Amore, di fluidità e di rinascita, di forza palingenetica che riporta la vita sulle ceneri degli incendi, la Betulla è allo stesso tempo anche simbolo di vecchiaia e di morte. Il bianco della sua corteccia, che fa apparire il suo tronco come un fantasma, e il suo ruolo di guardiana del confine tra la vita e la morte, la rendono protettrice delle soglie, saggia megera dai capelli candidi che non teme la morte perché sa di essere immortale;  la Perchta, vecchia madre sapiente, che custodisce i segreti della femminilità e protegge donne e bambini.

A questo aspetto è legato il suo potere purificatore: il mese della Betulla inizia il 1 novembre, con Samhain, la festa stagionale che segna l’inizio dell’anno lunare, il capodanno celtico. A Samhain le porte fra i mondi si aprono ed è possibile incontrare spiriti guida e spettri. Inoltre, a Samhain (durante la prima luna nuova dopo il 1 novembre) la Terra viene investita da una grande energia di purificazione, preparandosi ad attraversare l’inverno.

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Scope di rami di Betulla (non strappati dagli alberi ma raccolti da terra con rispetto, chiedendo all’albero madre il permesso di poterli utilizzare) venivano usate e vengono usate tutt’oggi per spazzare il pavimento scacciando le energie negative, ripulendo e purificando l’aura del luogo.

Nella saune dell’Europa del nord si usa ancora frustare dorsi e gambe delle persone con rami di Betulla, per favorire la circolazione.

La linfa di Betulla, che si raccoglie a inizio primavera da fori praticati nel suo tronco, è un rimedio per drenare e per purificare il sangue.

Inoltre la Betulla è da sempre connessa alla Triplice Dea (presente in tutte le culture indoeuropee fin dal Neolitico), sia per via della sue spiccate qualità di albero femminile, sia per via dei tre colori della sua corteccia (bianco, rosso e nero, come i colori della Dea giovane, matura e vecchia), sia per via del fatto che spesso si possono trovare gruppi di tre Betulle cresciute dallo stesso ceppo, che segnano luoghi sacri e costituiscono portali magici.

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La sua corteccia che si squama come la pelle di un serpente richiama anch’essa l’idea di morte e rinascita, di trasformazione, di nuovo inizio (abbandonare la pelle vecchia, ritornare giovani…) e contribuisce anche ad associarla alle immagini della Dea Serpente neolitica.

E’ l’albero nazionale di Finlandia e Russia.

Dove c’è tanta luce, c’è anche tanta ombra. E il potere della Betulla è proprio quello di non soccombere al lato oscuro ma di continuare a danzare la danza della vita, con grazia e sapiente leggerezza. E’ una vecchia, una vecchissima che però sembra sempre giovane. E’ il rinnovamento continuo, il morire e disseminarsi, scivolando in bilico tra Buio e Luce, scintillando.

Fitoterapia:

La Betulla è governata dal pianeta Venere (sistema linfatico, gola, larigne, corde vocali, reni, surreni) e in seconda istanza da Saturno (di nuovo le sue due anime!) ed è connessa alle potenzialità del segno Bilancia, che calibra in sé gli opposti, ma agisce efficacemente su tutti i segni ed è quindi da considerare una pianta delle più utili, da sempre molto importante per le popolazioni delle zone artiche e temperate.

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E’ uno dei diuretici e diaforetici più efficaci (soprattutto le foglie), in quanto è un potente eliminatore dei cloruri, dell’urea e dell’acido urico. Si impiega nei casi di reumatismi gottosi, litiasi urinarie, coliti nefritiche, albuminuria e applicata localmente con lavande nel caso di affezioni delle vie urinarie. E’ la pianta principe dei ricambi cellulari di sodio e potassio. Le foglie fresche sono più attive e ciò fa supporre che l’olio essenziali rinforzi l’attività diuretica.

Inoltre, l’estratto fluido, acquoso e secco ottenuto dalle foglie ha anche attività antibiotica.

E’ largamente impiegata nel trattamento della cellulite, favorendo l’eliminazione di acido urico e colesterolo e di conseguenza l’eliminazione e la scomparsa dei noduli fibroconnettivali.

Infusi di foglie di Betulla si usano, esternamente, contro la caduta dei capelli, mentre con la corteccia si possono preparare pediluvi utili contro il sudore profuso dei piedi.

Influendo sulle surrenali, la Betulla è anche un debole stimolante sessuale, ed è ottima ed efficace anche nei casi di ipercolesterolemia.

La corteccia e il legno di Betulla danno per distillazione secca un catrame che viene utilizzato nella cura delle affezioni cutanee. L’olio essenziale ottenuto dal catrame di Betulla si una in pomata (8%) contro il reumatismo e può essere impiegato in prodotti per il massaggio sportivo.

In Gemmoterapia è da segnalare la Linfa di Betulla (conosciuta come Betula verrucosa linfa), che contiene due eterosidi i quali liberano per via enzimatica salicilato di metile ad attività analgesica, antinfiammatoria e diuretica. Nel trattamento dell’iperglicemia può essere considerata rimedio principe, in quanto la sua assunzione regolare per due o tre mesi ne permette la riduzione del 20-30%: si riesce così a ottenere una diminuzione non solo del rischio vascolare, ma anche articolare, sempre presente nell’uricemia. Per l’aumentata attività diuretica che determina, può anch’essa essere utilizzata nel trattamento delle litiasi urinarie.

L’indicazione principale per la linfa di Betulla è comunque quella riguardante il trattamento della cellulite, ove riduce l’impastamento e la componente dolorosa oltre a contrastare, grazie all’aumento della diuresi, la ritenzione idrica. Per queste peculiarità e per l’attività ipocolesterolemizzante, la linfa di Betulla rientra anche nei protocolli terapeutici per il trattamento del sovrappeso.

La linfa di Betulla viene raccolta con una tecnica particolare: all’inizio del mese di marzo, durante la montata di linfa primaverile, si praticano nelle Betulle adulte, che crescono in zone boschive, e di preferenza sulla parte del tronco esposta a sud, alcuni fori a circa un metro da terra, profondi da due a cinque centimetri, leggermente obliqui verso l’alto, nei quali si introduce un ubichino da cui la linfa defluisce nei recipienti posi a terra. La raccolta risulta più proficua quando le Betulle sono di media grandezza, crescono in luoghi elevati e l’inverno è stato rigido. Ricordiamoci, qualora volessimo tentare queste tecnica, di chiedere il permesso alla Betulla, di trattarla con rispetto e gentilezza ed esserle profondamente grati per il dono che ci sta facendo. Non abusiamo della sua generosità, tuteliamo al sua salute e integrità: la linfa è il suo sangue!

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In Gemmoterapia, oltre a Linfa di Betulla, si utilizzano anche altri gemmoderivati, tutti dalle magnifiche proprietà e preziosi per l’uomo. Eccone un breve elenco (Betula verrucosa Ehrart, Betula alba L. e Betula pendula Roth sono tre nomi differenti usati per indicare lo stesso albero):

Betula verrucosa gemme MGDH1: processi di natura infiammatoria o infettiva, disturbi della cresctia:

Betula verrucosa semi MGDH1: navrastenia da affaticamento intellettuale, depressione;

Betula pubescens amenti MGDH1: astenia sessuale, sovrappeso;

Betula pubescens gemme MGDH1: infezioni recidivanti delle vie aeree (azione immunostimolante), disturbi della crescita;

Betula pubescens radichette MGDH1: iperuricemia, ritenzione idrica, ipercolesterolemia.

Nel repertorio floreale alaskano c’è un’essenza che si ricava dai fiori di Betulla, in particolare quelli di Betula papyrifera, una specie di Betulla diffusa in Alaska, la cui corteccia tende a sfaldarsi in riccioli. Il rimedio, Paper Birch, è utile in tutte in quelle occasioni in cui ci sentiamo insicuri, non riusciamo a comprendere dove siamo sul nostro cammino, abbiamo difficoltà a prendere decisioni che incidono sul nostro cammino oppure quando non abbiamo sufficiente determinazione nel raggiungere in nostri obiettivi una volta che sono stati identificati e facciamo quello che gli altri vogliono che facciamo piuttosto che ciò che noi vogliamo fare.

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Paper Birch porta calma determinazione, salda consapevolezza dei propositi e una continuità di focalizzazione che viene da una connessione chiara e attiva con i livelli profondi del sé. Paper Birch rinnova la nostra prospettiva su ciò che stiamo facendo nella vita e introduce un’energia calmante, chiarificante e rilassante che ci aiuta a spostare l’obiettivo  dai pensieri caotici e dalle emozioni confuse alla pace e alla gioia che sono sempre presenti nel centro del nostro essere. Da questo luogo di consapevolezza siamo più capaci di prendere decisioni fondamentali nella nostra vita che supportino la verità di ciò che siamo.

Il messaggio di Paper Birch è “Sono attivamente connesso con i livelli più profondi del mio vero sé. Seguo il sentiero della mia vita con calma determinazione.”

L’energia della Betulla:

La Betulla è un albero che amo moltissimo. E’ uno spirito libero, l’incarnazione della libertà e della gioia di vivere. E’ coraggiosa, una pioniera, una vera e propria guerriera della luce la cui arma è però la leggerezza, la fluidità, la danza. E’ un’acrobata che percorre il confine fra Buio e Luce, è una Porta fra i Mondi che grazie alla sua profonda saggezza sa ridere, sdrammatizzare. La sua danza di gioia, la sua chioma che ondeggia nel vento, le sue foglie che cantano luce, i suoi rami flessuosi, il suo aspetto lieve di giovane ballerina non deve trarre in inganno: è proprio la sua grande sapienza, il suo conoscere i segreti per il passaggio tra le varie dimensioni, il suo vivere vicina al ricambio tra vita e morte, a renderla così “spensierata”. Come gli sciamani, che si dice ridano spesso, di quasi qualunque cosa: è perché conoscono la Realtà e sanno che non c’è nulla oltre la gioia. La gioia non è quindi segno di immaturità: chi danza davvero, come la Betulla, lo fa perché sa che non c’è nient’altro, oltre la danza.

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La danza della Betulla è la Danza della Vita, i suoi tronchi bianchi riempiono gli occhi di luce ma portano addosso anche squarci di nero, e sono proprio quegli squarci ad essere i loro occhi… Il bianco riflette la luce dell’aria, ma il nero assorbe, introietta. Nella Betulla troviamo il bianco, il nero e il rosso della Fertilità, una grande fiducia nella rigenerazione, nel mondo: la betulla sparge i suoi semi al vento, lasciando che questi, con il coraggio che deriva dalla gioia e la fiducia che nasce dalla forza e dalla saggezza, volino per il mondo e fecondino la Terra.

Dopo l’era glaciale, quando l’emisfero boreale non era che una landa umida e desolata, lunare, è stata lei, la Dama Bianca, a colonizzare i prati riempiendoli della sua luce, nutrendoli con la sua energia, trasformandoli in magnifici boschi.

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Quest’albero sottile, vicino al mondo degli spiriti, emana chiaramente due tipi di energia, che si fondono e confondono l’uno nell’altro: una è l’energia materna e accogliente, simpatica, della ragazza dei boschi. Incontrare durante le passeggiate i tronchi occhieggianti delle Betulle alleggerisce immediatamente l’animo, fa sentire accolti, a casa, tra le braccia delle proprie sorelle, allegre e al tempo stesso discrete. L’altra energia è quella fantasmagorica, spiritica, sempre richiamata dal colore bianco. Un bosco di Betulle, mentre sembra una famiglia di sorelle che accolgono, proprio al tempo stesso, contemporaneamente, sembra anche un bosco di fantasmi, di spiriti assiepati che osservano e proteggono la sacralità del luogo. Non spaventano, ma per un attimo fermano il cuore, facendoci riflettere sul fatto che l’Altromondo è molto più vicino di quanto siamo soliti credere, è proprio qui di fianco a noi, anzi, in mezzo a noi: pervade il nostro mondo, ci siamo dentro in questo preciso momento…

La Betulla è legata sia a Beltane, festa della primavera, che a Samhain, festa di purificazione, capodanno delle Streghe, cuore dell’inverno.

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E’ la grande Madre, la Sorella e la Vecchia Saggia.

Il suo aspetto muta, in alcuni momenti è un’anziana signora dai capelli candidi, in altri una giovane che danza con la chioma luminosa sciolta nel vento.

Il suo segreto sta nel cambiare pelle, nello sfaldarsi della sua corteccia, nel rinnovamento continuo e nel non attaccamento. La Betulla sa che la vita è un ciclo di morti e rinascite il cui cuore è il continuo mutamento, il ricambio, lo slancio che inizia le danze, la corsa verso la luce.

La sua potente energia protegge tutti i nuovi inizi, donando leggerezza e fiducia ma anche forza, coraggio, adattabilità e saggezza.

In ogni nuova impresa, quando dovete lasciare andare il vecchio per intraprendere il nuovo, fate come la Betulla, questa antica e bellissima Maestra: entrate in contatto con la fluidità tutta femminile e l’ispirazione che brilla dentro di voi, sentite la vita pulsare nel vostro centro, pulsare di gioia. Screpolate via la pelle morta dalle vostre membra, fate la muta, rinnovatevi da capo a piedi lasciando scivolare via da voi le cellule morte, le energie del passato. Fate una girandola tra Buio e Luce, lanciate per aria i vostri semi, affidandoli al Vento, espandetevi danzando senza paura, correte libere per i prati attraversando l’inverno certe del ritorno della Luce, felici anche nel Buio. Siate voi stesse a cambiare il mondo, con la vostra energia feconda. Tutto è possibile, basta non smettere di danzare, anche quando sembra di essere immobili. La danza è nella luce degli occhi, nell’aria che respiriamo, e nutre ogni nostra cellula di gioia immensa.

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“I’d like to get away from earth awhile

And then come back to it and begin over.

May no fate willfully misunderstand me

And half grant what I wish and snatch me away

Not to return. Earth’s the right place for love:

I don’t know where it’s likely to go better.

I’d like to go by climbing a birch tree,

And climb black branches up a snow-white trunk

Toward heaven, till the tree could bear no more,

But dipped its top and set me down again.

That would be good both going and coming back.

One could do worse than be a swinger of birches.”

(Da Birches di Robert Frost)

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-Bosch H., Satanassi L., Incontri con lo Spirito degli Alberi, Humus Edizioni, Sarsina 2012

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

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-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Eliade M., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee Edizioni, Roma 1953

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-Paterson J.M., Tree Wisdom, Thorsons, London 1996

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