Pino, la nascita del Cosmo

Nome:

Il nome del genere Pinus è di origine controversa, anche se pare plausibile possa derivare dal greco pitys, latino pinus, nomi che hanno tutti origine nel sanscrito pitu, resina. Altre ipotesi indicano che possa derivare dal latino pix, che significa “pece” o “resina”, essudato della pianta, o dagli epiteti di radice indoeuropea pic, pungere con riferimento agli aghi, oppure pi, stillare, sempre con riferimento alla resina; infine, forse dal celtico pen, testa, alludendo alla forma della chioma.

Esistono centinaia di specie di Pinus, ognuna con tratti essenziali ma tutte con alcuni aspetti di forma e carattere in comune. Le specie a cui faccio riferimento qui di seguito sono Pinus sylvetris L. (o Pino scozzese) e  Pinus pinea L. (o Pino domestico), diffuse la prima da Gran Bretagna e Irlanda fino alle montagne della Spagna e all’Asia orientale, la seconda tipica dell’area mediterranea. Entrambe le specie, in ogni caso, godono di un vasto areale di crescita, trattandosi di alberi in grado di sopravvivere anche in condizioni sfavorevoli e su suoli poveri. Uno dei tratti salienti del Pino, infatti, è la resistenza.

Altre specie diffuse sono Pinus halepensis MIll., Pinus nigra J.F. e Pinus pinaster Ait. (o Pinus maritima Lam.).

Aus: J. Sturm's Flora von Deutschland

Aus: J. Sturm’s Flora von Deutschland

Botanica:

Le Conifere detengono il record come una delle famiglie di piante più antiche, dirette discendenti delle foreste primeve che prosperavano sulla Terra molto tempo prima della comparsa delle latifoglie. Il Pino è un albero che può raggiungere altezze anche di 30 metri, a seconda del suolo in cui cresce, e che può raggiungere i 600 anni di età. La sua lunga radice fittonante gli permette di resistere ai venti forti.

Nelle foreste naturali, i Pini crescono piuttosto radi permettendo alla luce di penetrare e raggiungere il suolo, creando fasci di luce e una magica profondità.

Si ritiene fosse il Pino, all’interno della famiglia delle Conifere, la specie prevalente nel Periodo Boreale, al termine dell’Era Glaciale.

Le foglie del Pino crescono in coppie, e questo lo distingue dal Tasso e dall’Abete, le cui foglie singole sono disposte a spirale lungo i rami; e dal Larice, le cui foglie crescono a ciuffi.

Quando i giovani Pini crescono, i loro rami più bassi cadono dando luogo al caratteristico tronco dritto e spoglio incoronato di rami, aghi e pigne.

Se il Pino si trova in uno spazio aperto e ben illuminato inizierà a riprodursi dopo 20 anni. Se l’albero si trova invece in un suolo paludoso o circondato da numerosi altri alberi aspetterà, per dare inizio alla riproduzione, fino ai 40 anni.

Spesso ai Pini piace crescere in compagnia della Betulla. Entrambi gli alberi condividono la simbiosi con il fungo Amanita muscaria. Anche altri funghi, quali il Boleto, amano la compagnia del Pino, che provvede inoltre cibo e riparo per molti animali selvatici come volpi e scoiattoli, e uccelli come il regolo dalle piume verde oliva.

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La corteccia del Pino è di colore rosso ramato, soprattutto in alto, dove è sottile, liscia e luminosa. Alla base dell’albero invece può diventare spessa, scura e ruvida.

Durante la crescita annuale del Pino ogni nuovo getto somiglia a una candela che cresce verticalmente verso il cielo. Al termine di ogni ramo cresce una grossa gemma resinosa avvolta da scaglie rosa e brune coperte da resina biancastra. In primavera la gemma si allunga e le scaglie cadono una ad una rivelando coppie di foglie, gli aghi, che si dividono a partire dal vertice. I rami crescono da gemme poste in cerchio al di sotto della gemma apicale.

Gli aghi del Pino sono rigidi, piatti in alto e cilindrici in basso. Sono di colore verdeblu e il blu deriva dallo strato di cera che cresce naturalmente sul fogliame. Le foglie di Pino vivono fino a tre anni e poi cadono ai piedi dell’albero, rimanendo sempre in coppie. Gli aghi appena nati sono verdi, ma diventano verdeblu nel giro di una stagione. La forma degli aghi permette al Pino di conservare l’acqua limitandone la perdita. Questo significa che il Pino non dipende troppo dall’umidità del suolo e può pertanto crescere in suoli sabbiosi.

All’inizio della primavera il Pino produce sia fiori maschili che fiori femminili (monoico). I fiori  maschili sono gialli e soffici e crescono alla base dei nuovi getti. Ogni fiore è formato da stami disposti a spirale e ogni stame sostiene due sacche polliniche. Il polline del Pino è estremamente abbondante e quando viene disperso nell’aria ogni cosa intorno si ricopre di una polvere gialla. Ogni grano di polline ha una sacca d’aria su su ciascun lato, e questo gli permette di volare. Non appena hanno rilasciato il polline i fiori maschili muoiono e cadono dall’albero.

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Il fiore femminile è minuscolo, rosso, e somiglia a una gemma che cresce in cima al nuovo getto. E’ costituito da scaglie appuntite, rosse e carnose disposte a  spirale. Il fiore femminile cresce su una specie di piedistallo e si piega verso l’alto in modo che il polline possa scivolare tra le scaglie e raggiungere gli ovuli alla base. Gli ovuli emettono una sostanza mucillaginosa che cattura e porta giù il polline. Dopo che la fecondazione è avvenuta le scaglie si ispessiscono e vengono sigillate dalla resina.

Per la primavera seguente, il fiore femminile si è fatto più grosso, ma è solo verso la fine della seconda estate, o anche nella primavera seguente, che le scaglie si aprono al tepore dell’aria rivelando piccoli semi marroni. Questi semi sono dotati di un’ala delicata e quando si staccano dal cono sono catturati dall’aria e viaggiano ciascuno verso la propria destinazione, fermandosi alcuni abbastanza vicino alla pianta madre, altri molto più lontano.

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Le pigne si aprono o si chiudono a seconda del tasso di umidità dell’aria. Si aprono solo quando il clima è secco così che i semi alati possano disperdersi e non piombare ai piedi dell’albero  madre per via dell’umidità. Le pigne vuote cadono dai rami in autunno, a volte dopo due anni e mezzo. Su uno stesso Pino si possono trovare fino a tre generazioni contemporaneamente, anche sullo  stesso ramo, dove le pigne nuove, quelle fertilizzate e le pigne vuote stanno appese una dietro l’altra.

L’epifisi, o ghiandola pineale, fu chiamata così da Cartesio per via della sua forma, che ricorda quella del frutto del Pino. L’epifisi regola il ciclo sonno-veglia del nostro organismo grazie alla produzione dell’ormone melatonina, e reagisce agli stimoli di luce e buio. Secondo la filosofia indiana, la ghiandola pineale è connessa al nostro settimo chakra, quello che si apre in cima alla nostra testa collegandoci al Cosmo e ai suoi ritmi.

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Mitologia e storia:

Il Pino è governato dall’energia di Saturno, che rappresenta l’archetipo del Padre e dell’Eremita, di colui che contiene, regola, dona forma e struttura, sorregge.

Nella mitologia il Pino è l’albero in cui viene trasformato Attis, protagonista insieme a Cibele di una delle storie più intricate del mondo mitologico, ma anche più potenti. Il modo in cui lo sentivano gli antichi ci dice molto sulla sua energia. Il mito di Attis è antichissimo, rappresenta movimenti primordiali inconsci e risale ai tempi in cui dio era una donna, la Grande Madre Terra. Riporto qui di seguito un brano tratto dal “Mitologia degli alberi” di Jacques Brosse, un libro bellissimo. Brosse spiega:

“(…) Questa storia comincia con quella di sua madre Cibele. Da una pietra fecondata dal seme che Zeus aveva lasciato cadere sulla terra durante il sonno nacque un mostro ermafrodita di nome Agdistis. Spaventati, gli dei decisero di castrarlo e così Agdistis diventò la dea Cibele. Il sangue sparso fece spuntare dalla terra un mandorlo, o un melograno. Mangiando una mandorla, o mettendosi in seno una melograna matura, proveniente dall’uno o dall’altro di quegli alberi, la figlia del fiume Sangario, Nana, rimase incinta e concepì Attis. Vergognandosi di quel figlio che non aveva padre, Nana lo abbandonò in riva al fiume dove una capra lo nutrì. Fu lì che Cibele-Agdistis lo rinvenne in mezzo alle canne. Crescendo, il fanciullo divenne così bello che Agdistis se ne innamorò. Ma, sia che egli volesse sfuggire a quell’amore incestuoso sia che i suoi genitori preoccupati (ma di quali genitori poteva trattarsi?) lo mandassero lontano, fatto sta che il giovane arrivò a Pessinunte, dove doveva sposare Atta, la figlia del re. Mentre si celebravano le nozze, Agdistis, che inseguiva il suo amato, entrò nella sala del banchetto. Immediatamente, l’assemblea è colta dalla follia: il re si mutila, Attis fugge, si castra sotto un pino e muore. Agdistis, disperato, tenta di resuscitarlo, ma Zeus si oppone e acconsente solo a che Attis, trasformato in pino, rimanga sempre verde e incorruttibile, quindi immortale; gli unici segni esteriori di vita in lui saranno la crescita dei capelli e l’agitarsi del mignolo. Alcuni autori aggiungono che Cibele avrebbe portato il pino nella sua caverna per piangere il figlio, scena che veniva raffigurata nelle feste in onore di Attis. Un’altra versione della morte del dio, riferita da Pausania… (…)

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In questa matassa così intricata che non si sa più chi è chi, dobbiamo adesso tentare di sbrogliare i fili. Si sarà certo notato che essa contiene almeno un fattore già noto, l’abbandono del dio da parte della madre all’atto della nascita, elemento già rilevato nell’infanzia di Dioniso e dello Zeus cretese, con i quali Attis ha un altro punto in comune: è nutrito da una capra. L’abbandono è caratteristico delle divinità maschili dell’albero, generate dalla Terra Madre, che si chiamino esse Rea o Semele o Cibele. Quest’ultima, però, ci è presentata qui come prodotta dalla castrazione di un essere in origine ermafrodita, amputazione originaria che appare per questo contagiosa. Anzi, essa costituisce addirittura il motivo essenziale del mito.

Queste mutilazioni in serie non hanno tutte lo stesso significato. Cbele è in Frigia la Grande Dea, la Terra Madre, equivalente in Grecia di Gea e di Rea. Nella teogonia greca, come in altre teogonie, la divinità primigenia è necessariamente bisessuata, perché genera da sola, estrae da sé e senza aiuto gli altri dei e il mondo, che sono suoi figli E’ “la totalità primordiale, che racchiude tutte le facoltà, perciò tutte le coppie di opposti”. Perciò, quando Gea emerge dal Vuoto, dal Caos primordiale, insieme a lei nasce l’Amore, che qui è il desiderio di generare, di creare altri esseri. E Gea mette al mondo “un figlio simile a sé, Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno”. Nei termini utilizzati da Esiodo, troviamo la figura originaria, il prototipo delle dee che generano un figlio affinché diventi il loro amante, padre dei loro futuri figli, appunto perché quel figlio non ha, non può avere, un padre. IN origine la divinità è sola. Il suo atto creativo è bipartizione di sé, bipartizione che può essere intesa come automutilazione.

Così è stato, all’origine dei tempi, per Cibele nella mitologia frigia. Se, nella versione greca della leggenda, sono gli dei che decidono di castrarla, ciò dipende solo dal fatto che i Greci, avendo interrato Cibele nella loro mitologia, l’hanno posta alle dipendenze degli dei dell’Olimpo. Nella cosmogonia primitiva è la stessa Cibele che, essendo sola, si castra, e il prodotto di tale mutilazione altro non è che la Creazione..

La nascita di Cibele conseguente alla spargimento del seme di Zeus sulla pietra rappresenta peraltro una forma assolutamente arcaica della cosmogonia: “la roccia è il simbolo più antico della Terra Madre” e “la pietra grezza è considerata androgina, laddove l’androginia restituisce la perfezione dello stato primordiale”. IN quanto roccia, Cibele è vuota, come il ventre di una madre, è una caverna. Sotto terra, in una grotta, si compiono i suoi riti segreti. La caverna primordiale dalla quale vengono alla luce gli esseri viventi è anche il luogo dove si sotterrano i morti; i morti vi entrano e i vivi ne escono. E’ un microcosmo che riassume un macrocosmo, in cui il suolo corrisponde alla Terra e la volta corrisponde al Cielo, è il serbatoio tenebroso delle energie telluriche, il santuario ctonio. Dalla roccia, androgina e sterile, nasce la terra (femminile), risultato del sua sfaldamento, dal quale soltanto possono nascere e crescere i vegetali che la renderanno fertile mediante l’humus, nato a sua volta dalla decomposizione delle loro foglie. Nelle mitologie, lo stato primigenio della vita sulla terra è rappresentato dall’associazione della roccia con l’albero. La pietra sacra, venerata come “casa di Dio”, centro, ombelico del mondo, come a Delfi l’omphalos, è sede della potenza divina, ricettacolo della vita non ancora manifesta, della quale espressione prima è l’albero cosmico. L’albero appare come figlio della pietra.”

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Dietro al Pino ci sono queste energie: energie legate all’impulso primordiale d’amore che ha portato alla nascita del Cosmo. Il mito ce lo mostra legato alla Madre Terra, e all’unione primordiale degli opposti, maschile e femminile. Il Pino è infatti un albero ermafrodita, e una delle specie più antiche presenti sulla Terra. Non c’è da stupirsi che gli antichi lo vedessero come simbolo dell’amore tra madre e figlio, divenuti amanti, in un cerchio che può venire spezzato soltanto dall’estremo sacrificio, la morte, che però genera vita immortale.

Nella versione greca, Agdistis, il dio-pietra ermafrodita, è un presentato come una creatura mostruosa, che Zeus amputa per disgusto. Questo era infatti come la società patriarcale rappresentava la Grande Dea delle religioni del Neolitico. La sua potente femminilità spaventava terribilmente i Greci, così come le altre società patriarcali dell’epoca, che sottomisero la civiltà matrifocale diffusa nella Vecchia Europa. Perciò la dipinsero come un mostro.

In realtà però, al di sotto della maschera, possiamo ancora leggere parti di una vicenda sacra, che rappresenta l’eterno rinconrrersi ed amarsi del principio maschile e di quello femminile presenti entrambi in ognuno di noi, dell’irresistibile impulso alla creazione che nasce da dentro e che per nascere ci chiede il sacrificio di una parte di noi, per poi riunirci nuovamente, in un’altra forma.

Il ritmo di questa storia ricorda una spirale, e il Pino, col suo tronco che si staglia verso il cosmo e la sua radice fittonante che penetra nelle profondità della Terra, è il simbolo saturnino di forze potenti e contrapposte, che in lui si fondono in un’alchimia purificatrice che dà luogo alla resina, il pianto di luce del Pino, la sua essenza cosmica.

I cicli biologici del Pino seguono ritmi lenti, planetari, e sui suoi rami più generazioni di frutti vivono una accanto all’altra, impregnandosi di informazioni cosmiche.

Fitoterapia:

L’olio essenziale di Pino è contenuto in numerose specialità fitoterapie. La parte della pianta utilizzata è costituita dalle foglie aghiformi, che nella medicina popolare venivano usati per fomente, mettendoli nell’acqua bollente o addirittura nell’acqua calda del bagno. L’essenza sprigionata infatti, pur esigua come quantità, penetra facilmente attraverso la cute dove esplica un effetto balsamico, fluidificante le secrezioni, sedativo della tosse e antinfiammatorio.

Il Pino e i suoi derivati sono utilizzabili in virtù dei suoi numerosi costituenti chimici, rappresentati sostanzialmente dall’olio essenziale, ricco in monoterpeni: alfa-pinene, beta-pinene, limonene, acetato di bornile, 1.8 cineolo (eucaliptolo) e canfene.

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Può essere utilizzato nella cura di molte patologie dell’apparato respiratorio (i polmoni dentro cui penetra l’aria, collegandoci al respiro del Cosmo), in particolare in tutte quelle forme croniche per le quali vi sia la necessità di fluidificare le secrezioni catarrali (otiti, rino-sinusiti, bronchiti, asma bronchiale, bronchiectasie).

L’olio essenziale, anche se diluito, nelle preparazioni galeniche deve essere utilizzato con estrema attenzione, o prescritto dal medico (come tutti gli oli essenziali per via interna). Altrimenti è reperibile in numerosi prodotti fitoterapici in commercio.

E’ possibile utilizzarlo per suffumigi, aerosol (opportunamente emulsionato con una soluzione fisiologica), o miscelato a un olio vegetale, per massaggi sullo sterno.

La resina e gli aghi di Pino, bruciati, purificano l’aria dell’ambiente, sia su un piano fisico, disinfettandola, sia su un piano energetico. Lo stesso vale per l’olio essenziale.

Nel repertorio di essenze floreali di Bach, Pine è il fiore dell’autostima, che aiuta a superare sensi di colpa ingiustificati e la convinzione di non meritarsi di essere felici. Tutti meritiamo di esserlo, perché la felicità è la stessa energia che ci costituisce, alla sua frequenza più elevata.

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L’energia del Pino:

La voce del Pino è facile da sentire – è come un bellissimo pianto di luce, lungo, che collega la Terra al Cielo. Eppure il suo messaggio ha impiegato molto ad arrivarmi. Ha dovuto emergere da luoghi bui dentro di me, da memorie antiche.

Una volta, a una conferenza, Igor Sibaldi disse che ciò che è molto lontano nel tempo, in realtà è vicinissimo nel nostro inconscio. Questa frase ben rappresenta il Pino: archetipo espresso in una forma primordiale, simbolo di un processo che sta all’origine del Cosmo così come di ognuno di noi.

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Il Pino è l’immortale amore della madre per il figlio, e con questo si intende una forma di amore talmente pura da non rientrare in nessuna categoria, un amore al di là e prima di qualsiasi regola, identificazione tra dio e creato, che supera la morte e ogni differenza. Il Pino ricorda anche il dolore lacerante all’origine dell’Amore, e lo purifica, distillando una resina trasparente che è come luce solidificata, informata di messaggi akashici, antichissimi, che da miliardi di ere attraversano il Cosmo.

Il Pino li distilla dalla sua natura, di terra e di pietra, e li trasmette alla Terra, informandola della saggezza del Cosmo. Così quest’albero è un canale tra luce e buio (e il suo frutto somiglia all’epifisi, la ghiandola che regola il ciclo di luce e buio all’interno dei nostri corpi, apertura fisica al Settimo chakra), un essere vivente che supera la sua individualità, confondendosi con gli elementi.

L’energia emessa dal Pino è molto forte e primordiale. Ci collega alle lontananze cosmiche spalancate dentro di noi, ci aiuta a superare le dualità tra la nostra parte femminile e quella maschile, trovando nel nostro cuore nostra madre e nostro padre, rendendoci conto che i nostri genitori non siamo che noi stessi, che noi siamo i nostri stessi figli, e amanti. La danza cosmica ci proietta in mille direzioni e come scintille di un fuoco ci separiamo per poi incontrarci di nuovo e tornare a far parte di un’unica fiamma.

Osservare con gli occhi dell’Anima il Pino ci mostra come si esprime l’energia primordiale.

La sua enorme potenza è incanalata, contenuta per produrre geometrie precise: gli aghi, la pigna, la corteccia. La resina è energia primordiale purificata, elevata alla sua massima potenza dal fuoco nato dall’attrito tra il desiderio di espansione e il principio di contenimento. Così è in effetti la natura di ogni atto creativo, e il Pino ce ne rende visibile una forma intrisa di luce vibrante.

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Bibliografia:

-Adams M., The Wisdom of Trees, Head of Zeus Ltd, London 2014

-Angelini A., Il serto di Iside, Kemi, Milano 2008

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Firenzuoli F., Le 100 erbe della salute, Tecniche Nuove, Milano 2000

-Hageneder F., Lo spirito degli alberi, Crisalide, Latina 2001

-Hidalgo S., The healing power of Trees, Llewellyn Publications, Woodbury 2014

-Paterson J.M., Tree Wisdom, Thorsons, London 1996

-Rigoni Stern M., Arboreto salvatico, Einaudi, Torino 1996

-Scheffer M., Il grande libro dei fiori di Bach, Corbaccio, Milano 2013

– Sentier E., Trees of the Goddess, Moon Books, Hants 2014

-Spohn M. e R., Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio, Roma 2011

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Tasso: l’incontro con il lato oscuro

Nome: Taxus baccata L., famiglia delle Taxaceae

Il nome deriva dal greco toxon, che significa “arco”, e ha la stessa radice dell’aggettivo toxicon, velenoso.

In effetti, quasi ogni parte di quest’albero, eccetto l’arillo rosso che circonda lo scuro seme, è velenosa per uomini e animali domestici per via della taxina, uno dei veleni più potenti esistenti in natura, un alcaloide in grado di uccidere tramite collasso cardiovascolare. Gli animali in assoluto più sensibili alla taxina sono i cavalli,  a un uomo bastano pochi grammi di veleno per morire, mentre i cervi sembrano potersi nutrire delle velenosissime foglie senza problemi. Gli uccelli ne mangiano i frutti, consumando l’arillo rosso (cihamato di solito “bacca” impropriamente), restituendo intatto il velenosissimo seme alla terra. La parte in assoluto più tossica dell’albero sono le foglie, soprattutto quando secche.

Dal suo essere così velenoso deriva in parte un altro nome con cui il Tasso è noto, e cioè: Albero della Morte.

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Botanica:

Il Tasso è una pianta sempreverde appartenente a una famiglia piccola e isolata della gimnosperme, le Taxaceae. Il tronco raramente supera i 15 metri e le foglie assomigliano un po’ a quelle dell’Abete bianco: sono lineari, appiattite, un poco falcate, acuminate ma non pungenti perché tenere, e si distribuiscono a spirale attorno ai rametti.

La sua patria si estende verso nord fino all’Irlanda e alla Norvegia, verso sud fino ai monti dell’Europa meridionale e del Nord Africa e verso est fino all’Asia minore e al Caucaso. Cresce soprattutto nel sottobosco di faggeti o di boschi frondiferi misti. E’ un albero amante dell’ombra.

Gli esemplari selvatici sono stati pesantemente decimati dall’eccessivo sfruttamento dell’uomo e dalla distruzione dei nuovi germogli da parte dei cervi. Il Tasso, come l’Abete rosso, è sensibile alle gelate intense.

Dai tronchi danneggiati crescono nuovi rami verticali che si sviluppano intorno al tronco stesso formando uno pseudo-fusto. Per questa ragione, nella sezione trasversale mancano spesso anelli annuali univoci, complicando la determinazione dell’età. La sua corteccia è bruno-rossastra e tende a disfarsi in scaglie. Ma mentre il nucleo centrale del tronco, con il passare degli anni (si tratta di una pianta particolarmente longeva), lentamente marcisce, strati di nuovo tessuto inglobano il vecchio legno morto proteggendolo e rinforzandolo. Il Tasso si rinnova dall’esterno verso l’interno. La crescita tiene il passo con il disfacimento. Raggiunto il disfacimento completo, il Tasso può risorgere. Non ci sono ragioni biologiche per cui un Tasso muoia. Un effetto di questo processo è che nessuna parte di un Tasso è vecchia come l’intero albero, perciò la datazione con il carbonio è impossibile e, non essendoci nemmeno anelli da contare, per lungo tempo la vera età dei Tassi è rimasta avvolta nel mistero e fino agli anni ’80 si riteneva che quest’albero non potesse superare gli 800 anni.

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Il Tasso di Fortingall

Quest’ipotesi venne però rivista in seguito alle ricerche di Alan Mitchell e David Bellamy, famoso botanico inglese. A Tantridge, nel Surrey, fu scoperto un Tasso molto antico a circa 8 metri di distanza dalla chiesa locale, che ha fondamenta sassoni. Nella cripta si può chiaramente vedere  che la volta di pietra fu costruita dai Sassoni attorno le radici dell’albero. Dopo aver raggiunto la maturità, i Tassi smettono di crescere in altezza e le radici aumentano di diametro in modo straordinariamente lento. Queste scoperte provano non solo il rispetto che i Sassoni avevano per quest’albero ma anche che esso 1000 anni fa era già completamente adulto. Attualmente si ritiene che abbia più di 2500 anni.

Come spiega Fred Hageneder nel suo stupendo libro Lo spirito degli alberi, la rivalutazione dell’età dei Tassi nelle Isole Britanniche è stata coordinata dal Conservation Found di Londra, che ha identificato 413 Tassi che hanno più di 1000 anni. Molti hanno il doppio o il triplo di quest’età, e alcuni hanno un’età di 4-5000 anni. Il più vecchio, il cui seme dev’essere germinato nella tundra post-glaciale circa 8000 anni fa, si trova a Fortingall, in Scozia. Potrebbe trattarsi dell’albero più antico al mondo.

Mentre le conifere sono in genere ermafrodite, i Tassi sono sia di sesso maschile che di sesso femminile, anche se esistono alberi bisessuati, o che a un certo punto della loro vita sviluppano rami su cui crescono fiori di sesso opposto, proprio come nel caso del Tasso di Fortingall, un albero maschio che recentemente ha sviluppato rami su cui crescono fiori femminili e frutti.

Questo ci mostra non solo la grande vitalità e la capacità di rinnovamento di questi alberi, anche se vecchissimi, ma anche la loro capacità di trascendere le categorie, collocandosi al di fuori del tempo. I Tassi sono creature che mutano con il fluire dell’energia, trasformandosi di continuo, lentissimamente.

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I fiori maschili sono piccole strutture globulari situate singolarmente sull’ascella della foglia, sotto i rami dell’anno precedente, mentre i fiori femminili, sistemati in una posizione simile, sono fiorellini verdi che si espandono dopo l’impollinazione. Il seme è duro, di colore nero-verde e circondato da un arillo la cui forma ricorda una coppa. Verde all’inizio e rosso brillante a maturazione, l’arillo è polposo, dolce ed è l’unica parte non velenosa dell’albero. I semi vengono propagati dagli uccelli, che mangiano il frutto polposo senza intaccare il seme (velenoso) ma restituendolo alla terra intatto.

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Albero dal portamento cespuglioso, che nei rari casi in cui cresce isolato sviluppa una chioma globosa, il Tasso è un albero dall’incredibile vitalità, con varie modalità di riproduzione: in primavera i fiori maschi riempiono l’aria di polline (anch’esso leggermente velenoso) per raggiungere i fiori femminili e inseminarli; il tronco può facilmente produrre nuovi germogli dopo essere stato tagliato o danneggiato da una tempesta e i polloni radicali rappresentano un ulteriore e molto efficace metodo di propagazione. Il Tasso però ha anche una terza forma di riproduzione, molto rara in piante non tropicali, e cioè la margottatura. Un ramo di qualsiasi dimensione può estendersi fino al terreno e mettere radici. La funzione di questo processo sarebbe quella di fornire un sostegno ai rami in continua crescita, ma la nuova radice produce anche giovani germogli, che si dirigono verso l’alto divenendo essi stessi nuovi alberi. Questo accade in tutte le direzioni, cosicché intorno all’albero madre si forma un anello o un boschetto di nuovi alberi facenti tutti parte della pianta originaria.

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Questa caratteristica rende il Tasso un albero particolarissimo, dotato di un Io plurale; una creatura antichissima che si muove e cresce con tempi quasi più simili al quelli dei minerali che della materia organica. E come Gaia, il Tasso può non morire mai (a meno che una disgrazia o l’uomo non ci metta lo zampino), ma rinnovarsi di continuo e cambiare attraverso le ere.

Mitologia e storia:

Il Tasso è albero celebre sin dall’antichità, e da sempre è stato associato dall’uomo ai concetti di morte e, al tempo stesso, di eternità. I due concetti solo apparentemente opposti nel Tasso si fondono e vengono trascesi: la morte diviene un momento di buio e di passaggio verso la rinascita. La morte è un cambiamento di forma.

Albero spesso presente presso i siti sacri dei Celti (Fortingall, Carn nam Marbh, Newgrange, Stonhenge, Avebury), diviene in epoca cristiana anche un ospite quasi fisso dei cimiteri, o meglio, molte chiese e cimiteri vengono costruiti nei pressi di uno o più Tassi perché, consapevolmente o meno, gli uomini sentivano il messaggio di questi alberi, che contribuiscono a catalizzare l’energia sacra dei luoghi in cui scelgono di crescere.

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Il manufatto ligneo più antico del mondo è una lancia in legno di Tasso rinvenuta a Clacton, nell’Essex, e che risale approssimativamente al 150.000 a.C. Un’altra lancia di Tasso, risalente circa al 90.000 a.C., è stata trovata tra le costole di un mammut in Bassa Sassonia. Il legno dell’arco, forte e al tempo stesso flessibile, fu ampiamente utilizzato in passato e fino a tutto il Medioevo per la costruzione di archi, e quest’usanza contribuì grandemente a decimare il numero di questi alberi, che un tempo erano molto più diffusi di oggi. E’ in legno di Tasso l’arco del celebre “Uomo venuto dal ghiaccio” o “Otzi”, la cui mummia venne trovata al confine tra Italia e Austria, sulle Alpi Venoste, vicino al ghiacciaio del Similaun, nel 1991.

Si tratta del corpo di un essere umano di sesso maschile risalente a un’epoca tra il 3300 e il 3100 a.C. (Età del Rame), conservatosi grazie alle particolari condizioni climatiche presenti all’interno del ghiacciaio. L’uomo è alto 1.55 m, con il corpo coperto da tatuaggi che sembrano percorrere la mappa dei meridiani della medicina tradizionale cinese. Il suo arco di Tasso misura invece 1.80 m.

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Oltre ad archi e lance, scavi archeologici condotti in siti di varie epoche (dall’Eta del Bronzo al Medioevo) hanno riportato alla luce talismani in legno di Tasso, alcuni dei quali recanti formule di protezione.

Cesare, nel Libro VI del De Bello Gallico racconta che Catuvolco, capo della tribù degli Eburoni (che significa “popolo del Tasso”), sfinito dagli anni e dalla guerra si tolse la vita con il veleno di Tasso.

Shakespeare nel Macbeth (atto terzo, scena prima) nel diabolico intruglio che le streghe stanno preparando fa mettere “…talee di Tasso/colte mentre le Luna è in eclisse…”; e sempre dal Tasso proviene il veleno che nell’Amleto Claudio versa nell’orecchio del re suo fratello per farlo morire.

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La runa norrena Eihwaz rappresenta il Tasso (soltanto un’altra runa è collegata così strettamente a un albero: Berkana, la Betulla). Ehiwaz ha forma di gancio, e rappresenta il passaggio tra un mondo e l’altro, il viaggio sciamanico, il collegamento fra le dimensioni dell’essere, e al tempo stesso l’inverno, la ferita inguaribile, la prova iniziatica.

Si tratta di una runa dal significato complesso, che ci parla di perseveranza e pazienza, rappresentando in un certo senso la discesa agli inferi (che non sono altro che il nostro lato oscuro) e l’incontro con le avversità. Solo imparando a trasformare le difficoltà in qualcosa di positivo, trovando nuove soluzioni a problemi vecchi, potremo infatti riuscire a integrare il nostro lato oscuro, attraversano il gelido inverno e tornando alla luce completamente rinnovati e al tempo stesso nutriti dalla stessa antichissima radice.

Nel suo libro Arboreto salvatico, Mario Rigoni Stern racconta di una costa scoscesa, alta sopra il mare di Liguria, ove un suo amico un giorno, andando alla ricerca di fossili, ha scoperto tra le cavità di una roccia un minuscolo bosco di una trentina di Tassi che vivono con qualche goccia d’acqua su pochissima terra e non raggiungono l’altezza di quaranta centimetri ma i cui tronchi, esaminati, hanno dimostrato di avere centocinquanta anni!

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Il Tasso è da sempre associato all’Inverno e in particolare al periodo del Solstizio: il momento più scuro dell’anno, in cui la Natura sembra morta e il Sole piccolo e debole. La forza e la resilienza del Tasso, albero amante dell’ombra e dell’oscurità, da sempre visto come custode dei morti, ci forniscono una lezione preziosissima su come affrontare il nostro buio; le sue bacche rosse nutrono gli uccelli e occhieggiano dai rami verde scuro segnalando l’energia di fuoco distillata dall’albero come una promessa di rinascita.

Il Tasso rappresenta il momento più buio dell’anno, il periodo più oscuro della nostra vita, il nostro lato ombra. Tutto ciò che crediamo di non poter accettare, tutto ciò che condanniamo e che ci avvelena dentro. Il Tasso rappresenta innanzitutto la paura di morire, madre di tutte le nostre paure, e al tempo stesso rappresenta l’antidoto definitivo alla morte.

Fitoterapia:

Governato dall’energia di Saturno, il Tasso è conosciuto per la sua tossicità. I principi tossici sono localizzati principalmente nei semi e sono costituiti da alcaloidi: la taxina e, in tracce, l’efedrina.

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E quale proprietà potrebbe essere più appropriata, per un albero della morte in molti sensi, che la capacità di combattere il cancro, impedendo alle cellule tumorali di riprodursi? Il Tasso ci aiuta ad attraversare i momenti più oscuri della vita, affrontando i mostri. Ci insegna che non esiste nulla a cui non si possa sopravvivere, cambiando forma, rinnovandosi. Se il tuo Io è malato, dai vita a un altro Io. Questo ci dice il Tasso. Ci dice che è possibile, su una radice antica, continuare a rinascere.

Negli ultimi anni la ricerca è riuscita a isolare dalla corteccia del fusto del Taxus brevifolia Nutt. alcuni diterpeni, tra cui il taxolo, che ha dimostrato di possedere un’elevata attività antimitotica. Il taxolo si è dimostrato utile contro un ampio spettro di malattie tumorali umane (leucemia, melanoma, cancro mammario, ovarico e polmonare). Questo composto a base di taxolo, conosciuto come paclitaxel, ha dimostrato di contribuire significativamente nella terapia del carcinoma ovarico epiteliale.

Attualmente però, sia per ragioni ecologiche (ridottissima quantità di taxolo presente nella corteccia = elevata quantità di alberi da abbattere), sia per problemi tossicologici (reazioni di ipersensibilità al prodotto, ulcerazioni del tubo digerente,…), si è riusciti a sintetizzare il principio attivo partendo da un suo precursore naturale estraibile dalle foglie rinnovabili di Taxus baccata: il docetaxel. Questo derivato dimostra di essere particolarmente efficace nel trattamento del cancro mammario metastatizzato resistente alle antracicline.

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In caso di intossicazione da taxina, appaiono in una prima fase sintomi digestivi (vomito e diarrea), sintomi nervosi (tremori, alterazioni della vista, midriasi, vertigini) ed ecchimosi; compare quindi eccitazione seguita da depressione, dispnea ingravescente, ipotensione e bradicardia, infine coma con segni convulsivi e collasso cardiovascolare (il tutto in 30 minuti dall’inizio delle manifestazioni).

L’energia del Tasso:

L’energia del Tasso è sottile e non immediata da cogliere, o almeno così è stato per me. Come se si trattasse di un animale gigantesco che si muove lentissimamente, come una creatura connessa ad altre dimensioni dell’Essere, a un’altra forma di tempo, e che comunica con un linguaggio lontanissimo.

Ma una volta entrati in contatto, una volta connessi all’energia del Tasso, questa non ci lascerà più. Continuerà a lavorare con noi e in noi anche nei giorni a seguire, nelle settimane, come una voce che ci sussurra dentro il suo messaggio.

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Il Tasso ci parla di morte e rinascita in un modo unico e profondamente trasformante. La morte per quest’albero non è un fatto che accade in un preciso punto del tempo, ma un processo diffuso, prolungato, che pervade ogni aspetto della vita. Così in effetti è la morte per tutti, solo che noi tendiamo invece, come sempre, a suddividere tramite la mente razionale, confinando l’evento morte in un istante determinato.

La morte è la vita che si trasforma. Questo ci dice il Tasso, ma non solo. Il Tasso ci parla anche di un senso più ampio di intendere la morte, simbolico e psicologico. All’ombra dei Tassi, avvolti dalla sua energia venefica e indecifrabile, ci troviamo di fronte al nostro lato oscuro: quella parte buia di noi, l’inverno dei nostri cuori che abbiamo sempre scelto di evitare o ignorare o rifiutare.

Il nostro lato oscuro, tutto ciò che noi non possiamo accettare di noi stessi, il veleno che ci fa paura, è l’inferno spalancato dentro di noi. E ognuno di noi, prima o poi, durante il suo percorso di vita e di crescita si troverà a dover affrontare il suo viaggio agli inferi, alla scoperta della morte che regna nel suo Io.

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Inanna, dea sumera che affrontò la discesa nell’Ade

La discesa nell’Ade tanto sovente rappresentata nella mitologia e nella letteratura altro non è, su un piano metaforico, che una discesa dentro i lati oscuri del proprio Sé, alla scoperta degli archetipi rigettati, dimenticati, condannati. Scendiamo negli inferi per incontrare la nostra metà della mela, ovvero non qualcun altro ma esattamente noi stessi, quella parte di noi che ci manca per essere completi. Quando ci troviamo di fronte al nero specchio che il nostro lato oscuro ci pone di fronte, sta a noi scegliere cosa fare. Se scappare e continuare a vagare nel limbo, se spaccare lo specchio e distruggere così anche noi stessi, o se guardarci negli occhi, guardare negli occhi la nostra metà orribile (che è divenuta tale solo per mancanza di amore e accettazione) e riconoscerla come parte di noi. La luce non può esistere senza l’ombra. Perché continuiamo a dimenticarcene? Il lato oscuro è parte fondamentale di un essere completo, è la sua metà, è funzionale al suo benessere, è il corpo dell’iceberg sommerso, che permette alla punta di galleggiare.

Incontrare il proprio lato oscuro è un’esperienza profonda e difficile. E il Tasso ci offre ancora, con la sua energia nera e splendente, la chiave per comprendere come attraversare gli inferi. Come è possibile non morire mai se, in effetti, ogni giorno moriamo un po’? Il Tasso ci risponde, con voce sussurrata e roca, che la morte non esiste, almeno non così come la intendiamo noi. La morte è trasformazione. Noi temiamo la morte perché pensiamo di essere un Io individuale e ci identifichiamo con la nostra personalità singolare, che riteniamo unica. Il punto è proprio qui: noi siamo plurali. E a dircelo è proprio il lato oscuro, che ci mostra come al di sotto del pelo dell’acqua ci sia il regno del caos, popolato da migliaia di voci e forme possibili. Tutto questo siamo noi e anche di più. Noi siamo fatti della stessa sostanza di Akasha, il campo di informazioni cosmico ove è registrato ogni evento, ogni cellula, ogni frequenza dall’inizio dei tempi, se mai vi fu un inizio. Nelle nostre cellule è contenuta una capacità di rinnovamento che va oltre i limiti della nostra immaginazione.

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Quando ci troviamo a confronto con il nostro lato oscuro dobbiamo abbracciarlo, anche se ciò ci disgusta, perché sarà proprio lui a innescare il processo di trasformazione che ci farà rinascere. Lasciamo crescere più parti di noi, sviluppiamo i getti più giovani, e piano piano alleggeriamo il nostro cuore, fino a che dentro saremo cavi, vuoti come il tronco di un Tasso millenario, aperto al vento, alla luce, cassa armonica per la sinfonia delle stelle.

Radici antiche, fusti sempre nuovi, un Io plurale eternamente giovane e la consuetudine al veleno, che ci protegge e combatte la morte a sua volta. Soltanto divenendo come il Tasso, provando a sintonizzarci sull’enormità della sua percezione del tempo, potremo giungere a immaginare come deve essere la vita di Gaia, la biosfera, quell’enorme animale che da miliardi di anni vive in simbiosi con il pianeta Terra. Quell’animale di cui noi stessi facciamo parte, come estreme propaggini sensoriali e cognitive, collaborando insieme al resto dell’organismo all’evoluzione della coscienza planetaria.

Il Tasso è un albero di grande saggezza e comprensione. La sua è un’energia difficile. Non per niente le rune norrene associano Eiwhaz al viaggio sciamanico, al passaggio tra le diverse dimensioni e alla ferita primordiale, ovvero quella ferita che ogni vero sciamano reca nel corpo o nell’anima, una ferita inguaribile che causa dolore ma al tempo stesso costituisce un’apertura, un ingresso magico alla coscienza cosmica.

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Non siamo noi a scegliere il Tasso, è lui a scegliere noi. A un certo punto della nostra vita lo incontreremo e da quel momento in avanti nulla sarà più lo stesso. Per fortuna. Tutto assumerà una profondità che prima non sospettavamo, anche grazie al dolore e all’ombra che invaderà i nostri occhi. Quando ci troveremo in quel luogo, potremo chiedere aiuto al Tasso e ispirarci al suo messaggio: nulla muore, tutto si trasforma, il lato oscuro è la parte più viva della vita, la morte è una terra misteriosa, un’avventura che ci conduce a una nuova vita, in una nuova forma. Finché non accetteremo questo, non potremo andare avanti e gli stessi errori, lo stesso percorso continuerà a riproporsi sempre. Il lato oscuro è la via obbligata alla luce.

Bibliografia:

-Adams M., The Wisdom of Trees, Head of Zeus Ltd, London 2014

-Angelini A., Il serto di Iside, Kemi, Milano 2008

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

-Campanini E., Dizionario di fitoterapia e piante medicinali, Tecniche Nuove, Milano 2004

-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Frazer J., Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2012

-Gaio Giulio Cesare, Le Guerre in Gallia – De Bello Gallico, Mondadori, Milano 1992

-Graves R., La Dea Bianca, Adelphi, Milano 2001

-Hageneder F., Lo spirito degli alberi, Crisalide, Latina 2001

-Hidalgo S., The healing power of Trees, Llewellyn Publications, Woodbury 2014

-Paterson J.M., Tree Wisdom, Thorsons, London 1996

-Rigoni Stern M., Arboreto salvatico, Einaudi, Torino 1996

– Sentier E., Trees of the Goddess, Moon Books, Hants 2014

-Shakespeare W., Amleto, Garzanti, Milano 1993

-Spohn M. e R., Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio, Roma 2011

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Faggio: Bastare a Se stessi e Proteggere il proprio Spazio

Nome: Fagus sylvatica L., famiglia della Fagaceae

L’etimologia del nome deriva probabilmente dal greco phagein, che significa “mangiare”, in quanto il Faggio, così come la Quercia e la castagna, appartenenti alla stessa famiglia, fu in passato fonte importantissima di cibo sia per gli uomini che per gli animali, grazie alle sue foglie edibili ma soprattutto ai suoi frutti, le faggine o faggiole, commestibili crude o abbrustolite oppure trasformabili in olio tramite spremitura.

C’è però chi sostiene (Angelini) che il nome derivi dal celtico fog, cioè “fuoco”, a indicare la natura di “fuoco fattosi materia” di quest’albero, comparso sulla Terra in epoca terziaria, quando si è verificato il raffreddamento del pianeta e il fuoco in superficie si è solidificato.

L’epiteto specifico sylvatica indica invece la sua natura boschiva, sottolineando la tendenza a formare boschi, solitamente puri, dove l’ombra prodotta dall’alto fogliame scoraggia la crescita di quasi qualunque altra pianta.

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Botanica:

Il Faggio è un albero deciduo, dal portamento maestoso, che può raggiungere i 40 metri di altezza e i 500 anni d’età. Il suo apparato radicale, inizialmente fittonante, in seguito si espande, formando una rete di numerose radici secondarie ben approfondite e in simbiosi con funghi che facilitano il recupero di sostanze nutrienti dal terreno. La sua corteccia è liscia, grigio-argentea, lucida, lenticellata sui rami e molto sottile: incidendola è molto facile infatti lesionare il cambio, che si trova subito al di sotto e che contiene i vasi in cui scorre la linfa dell’albero e le cellule che ne garantiscono la crescita. Per questa ragione, nonostante la tentazione di incidere messaggi sul bellissimo tronco dei Faggi sia forte (e spesso su questi alberi si vedono cuori con frecce e nomi di innamorati), sarebbe meglio evitare, poiché è alto il rischio di raggiungere il cambio e così ferire, anche mortalmente, l’albero.

La sua corteccia chiara e liscia inoltre rende il Faggio molto sensibile alla luce. Quest’albero amante dell’ombra infatti, se esposto improvvisamente alla luce del sole per esempio a causa di disboscamento, viene gravemente danneggiato, bruciandosi.

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Il Faggio ama l’ombra e il suoli umidi ma ben drenati. Rifugge i climi troppo secchi così come quelli eccessivamente piovosi, trovando la sua fascia climatiche ideale nelle foreste dell’Europa centrale, a circa 600 metri di altitudine. Una volta che si stabilisce nel suo territorio d’elezione, questa pianta esigente tende a colonizzarlo, formando di preferenza boschi puri. I rami crescono in alto, formando angoli acuti rispetto al tronco, e si ricoprono di fitte foglie sensibilissime alla luce, di colore verde chiaro appena nate e poi più intenso, ovali, semplici e alterne, lunghe dai cinque ai dieci centimetri e con l’apice a volte acuto, altre ottuso. Se anziché in un bosco il Faggio cresce isolato, sviluppa rami anche nelle parti più basse del tronco, ricoperti da un fogliame fitto che lo protegge dalla luce e che forma una chioma tondeggiante.

Trovandosi in un bosco di Faggi, si ha l’impressione di essere all’interno di una cattedrale, e infatti alcuni hanno ipotizzato che l’ispirazione per la forma delle cattedrali gotiche l’uomo l’abbia presa proprio da tali foreste. I rami alti e frondosi filtrano la luce del Sole impedendo a molti dei suoi raggi di raggiungere il suolo, ricoperto in ogni stagione da un tappeto di foglie che si decompongono lentamente contribuendo alla formazione dell’humus, il suolo nuovo, scuro e vivo, profumato di Terra. Se ne ha occasione, il Faggio crea i suoi boschi e li mantiene, scoraggiando, una volta che si è formato, la crescita di altre specie, a eccezione di quelle amanti dell’ombra come il Tasso o l’Agrifoglio. In un bosco di Faggi si respira un’atmosfera ordinata, raccolta, di pace e magia silenziosa. I suoi tronchi, luminosi e puliti, su cui a volte compaiono “occhi” disegnati da poche rughe della corteccia, si stagliano come giganti signore assorte che osservano quietamente gli eventuali ospiti avventurarsi tra loro, accogliendoli sul tappeto di foglie che invita a sdraiarsi, circondandoli con la danza dei dei raggi di Sole che giocano con il verde del fogliame.

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I fiori maschili e quelli femminili crescono sulle stesse piante. I fiori maschili formano amenti lunghi fino a 2 cm, mentre quelli femminili si raggruppano a coppie e danno origine ai frutti: cupole legnose ricoperte da aculei erbacei ricurvi che, giunti a maturità, si aprono in quattro valve liberando due noci rossastre, chiamate faggiole o faggine. I frutti del Faggio sono un’importante fonte di cibo per numerosi animali del bosco, come i cinghiali, i cervi, gli scoiattoli, i tassi, i tordi, i merli e molti altri. Il Faggio fiorisce in aprile.

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Le sue gemme sono lunghe e appuntite, bruno rossastre, dalla tipica forma di lancia. Qualcuno le ha paragonate a dita accusatorie, ma a me paiono più che altro simili a spine o ad antenne che si allungano nell’atmosfera curiose e sottili.

Tipico del Faggio, una volta che ha formato il suo bosco, è nutrire il terreno, formando humus per arricchirlo, rinforzarlo, mantenendolo al tempo stesso drenato e ventilato. Quest’albero infatti ama i terreni freschi, profondi e ben drenati, e cerca di mantenerli sempre così grazie alle sue radici sviluppate e alla simbiosi con i funghi. E’ come se il Faggio, pianta esigente e principesca che per crescere necessita di condizioni specifiche, amasse la sua casa al punto da proteggerla sempre, creando una sinfonia armoniosa tra le foglie che si muovono seguendo il ritmo del Sole, le forme eleganti dei tronchi e dei rami che si allungano verso il cielo e le radici espanse, laboriose, socievoli, che a volte crescono anche sulla superficie del terreno, avvolgendo massi o zolle di terra, simili a serpenti di roccia o a creature leggendarie.

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I suoi bisogni specifici sono probabilmente la ragione per cui, dopo la glaciazione, il ritorno del Faggio è stato uno dei più lenti. Si è diffuso più grazie all’uomo negli ultimi due millenni che per conto proprio nei precedenti sei.

E’ facile per i meno esperti confondere il Faggio con altri alberi quali il Bagolaro (Celtis australis) e il Carpino (Carpinus betulus), che però, a ben guardare, nonostante alcune somiglianze nella corteccia e nella forma delle foglie, sono diversi sia nei frutti che nel portamento, nelle gemme e nei fiori.

Mitologia e storia:

Albero governato dall’energia del pianeta Saturno, il Faggio esprime con tutto se stesso le caratteristiche simboleggiate da questo pianeta, connesso all’archetipo del Grande Vecchio e del Regolatore. Esso porta lo Spirito all’interno della Materia. Il Faggio, nella sua composta e ritmica eleganza, ci mostra come sia possibile creare una perfetta sintonia tra le varie dimensioni, condensando la danza sottile dell’energia all’interno di una forma definita, funzionale e bellissima.

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La sua corteccia liscia e leggera fu uno dei primi supporti utilizzati in Europa per la scrittura, e infatti il nome tedesco del Faggio, Buche, ha la stessa etimologia di Buch, che significa libro. E’ pertanto un albero legato alla saggezza e alla tradizione, alla conservazione della memoria.

Tacito racconta che i popoli germanici usavano lanciare bastoncini di Faggio incisi con Rune su un telo bianco affinché i sacerdoti, osservando la disposizione in cui i bastoncini ricadevano, potessero ottenere chiarezza sulle questioni poste.

Non esistono particolari miti o divinità legate a quest’albero, probabilmente anche per il fatto che non si tratta di un’essenza particolarmente longeva. Veniva però considerato con grande rispetto un tramite tra gli uomini e gli dèi, circondato da aura divina, e Macrobio riferisce che esso era considerato uno degli arbores felices, e che le coppe utilizzate per i sacrifici erano intagliate nel suo legno. Per i Celti esso era un albero simbolo di conoscenza, saggezza e lucidità, rappresentando anche le qualità di concentrazione e purezza necessarie ai druidi per poter entrare in contatto con l’altro mondo.

L’unione tra Spirito e Materia e tra uomo e Dio simboleggiata dal faggio si può trovare anche nel significato dei numeri presenti nei frutti: 2 semi di forma triangolare (3) sono uniti in 1 riccio composto da 4 valve. Nella numerologia, l’1 rappresenta l’assoluto, il principio divino; il 2 simboleggia la dualità, il 3 è il numero della conoscenza e del superamento della dualità e infine il 4 rappresenta la materia, costituita appunto dai quattro elementi.

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La foresta di Verzy, in Francia, era celebre per la presenza di alcuni Faggi mostruosi il cui tronco insieme con i rami più bassi formava ammassi confusi e contorti, probabilmente per via di malformazioni causate da una mutazione avvenuta in seguito alla caduta di un meteorite radioattivo nei primi secoli della nostra era. I Faggi “mostruosi” sono già citati in un cartulario dell’abbazia di Saint-Basle del VI secolo.

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Faggio nella foresta di Verzy

Il legno del Faggio è un legno che ben di adatta alle mani dell’uomo e infatti in passato è spesso stato utilizzato per costruire i manici degli attrezzi da lavoro. Per via del suo basso contenuto in tannini, invece, e dunque della sua scarsa resistenza alla decomposizione, non è indicato per la costruzione di mobili o case.

Fitoterapia:

La corteccia, il legno, le foglie e i semi del Faggio sono usati in medicina per le loro proprietà astringenti, antisettiche e disinfettanti. Il Faggio è una pianta rinfrescante: una preparazione fatta con la corteccia è un vecchio rimedio contro le febbre e stare sotto a un Faggio calma, rinfresca e stimola.

Un tempo la cenere di quest’albero  era utilizzata per produrre unguenti contro le infiammazioni della pelle di uomini e animali, così come per la preparazione di soluzioni saponose utili per pulire o lavare le superfici e la pelle.

Le foglie del Faggio sono commestibili e possono essere consumate fresche, in insalata o in minestre. I suoi frutti contengono il 50% di olio e sono stati utilizzati fin dall’antichità per il nutrimento di uomini e animali.

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Dalla distillazione del legno si ottiene il creosoto, una sostanza fungicida e insetticida che veniva utilizzata per curare funghi e altri problemi della pelle ma che, essendo piuttosto tossica per l’uomo e per l’ambiente, è oggi vietata. Già 200 anni fa però Hanemann, il padre dell’omeopatia, ne aveva notato gli effetti collaterali, trasformandolo in un importante rimedio omeopatico (Kreosotum).

In gemmoterapia, Fagus sylvatica, preparato con le gemme del Faggio, agisce sulle vie urinarie e sul sistema reticolo-endoteliale, ha notevoli proprietà antistaminiche, svolge un’azione diuretica, aumenta le gammaglobuline e riequilibra l’assetto lipidico, rivelandosi utile nella prevenzione e nel trattamento di sindromi allergiche, ipogammaglobulinemie, sovrappeso, cellulite e ritenzione idrica.

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In floriterapia, i fiori del Faggio costituiscono la base dell’importante essenza floreale Beech, rimedio che aiuta le persone ipercritiche ed esigenti, che tendono a isolarsi, a tenere un atteggiamento di superiorità come barriera difensiva, sentendosi incomprese e deluse dal mondo. Beech risveglia in queste persone la virtù della tolleranza e dell’accettazione, permettendo loro di mettere la loro grande lucidità, sensibilità e capacità di osservazione al servizio attivo di se stesse e degli altri.

L’energia del Faggio:

Il Faggio non comunica in maniera diretta e per ascoltare il suo messaggio occorre sintonizzarsi delicatamente con lui e restare in ascolto con ogni cellula del proprio corpo. Si sentirà allora diffondersi lungo la pelle, nelle vene e attraverso i canali energetici una sensazione sottile di benessere e completezza, che non solo pervade il nostro corpo ma permea tutta l’atmosfera del bosco che ci circonda, unificando il campo aurico e armonizzando le nostre frequenze. Stando seduti in meditazione in una faggeta, o sdraiati sul tappeto di foglie contemplando i rami più alti che si sfiorano, s’intrecciano e giocano con la luce, si entra dolcemente a far parte del bosco e così scompare l’illusione di essere separati. Ogni pensiero si placa, l’ansia svanisce e il Faggio ci trasmette la sua energia, mostrandoci con perfetta semplicità come bastare a noi stessi. Siamo calmi ora, siamo connessi. Non ci manca niente. Stare in una faggeta è come stare materialmente seduti nel centro del Cosmo.

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L’energia del Faggio avvolge e penetra i nostri corpi e ci parla di autonomia, di solitudine, libertà e protezione. Ci insegna che a ognuno è possibile bastare a se stesso, poiché ogni cosa è connessa e noi non abbiamo in realtà bisogno di nient’altro che di trovare il nostro Centro, ascoltare la nostra vera Voce, che è la Voce del Centro del Cosmo. Il Faggio ci insegna la forza e la severità necessarie a delineare il nostro spazio sacro, proteggendolo dalle influenze negative. Ci mostra come diventare bosco, nutrendo il terreno che ci nutre e intrecciando le nostre radici con quelle dei nostri simili, facendoci sostenere in questo dai funghi, che in natura sono simbolo della coscienza cosmica che tutto connette. Ci insegna anche a non svalutare le nostre esigenze, ma a cercare con costanza e pazienza l’ambiente giusto per poter prosperare. Ci insegna l’autostima, e che nessuno rispetterà noi e i nostri bisogni se non lo facciamo noi stessi per primi.

Dal Faggio possiamo imparare a creare un nostro spazio sacro (sia interiore che esteriore), meraviglioso come una cattedrale il cui dio siamo noi stessi, identificati con la Natura. Ci dice che non siamo mai soli, anche quando siamo soli. Ci parla della solitudine come strumento di conoscenza e di libertà, che ha bisogno di protezione e di quella disciplina armoniosa che vediamo in atto ovunque nella Natura: nel ricorrere continuo di ritmi e di reti energetiche che costituiscono la sostanza stessa della Vita.

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L’energia pulita e chiara del Faggio ci può aiutare a riconnetterci al nostro Centro e a pensare con lucidità e saggezza, sbrogliando la matassa inutile di condizionamenti e catene che provengono dalla programmazione inconscia a cui siamo stati sottoposti fin dalla nascita.

Quest’albero simbolo di libertà consapevole ci mostra quanto nutrimento e quanta ricchezza possono originare dalla solitudine, se quest’ultima è in armonia con il ciclo della Vita. Imparando a stare soli con noi stessi e proteggendo il nostro spazio sacro possiamo formare enormi boschi meravigliosi, possiamo espanderci e crescere, moltiplicarci, diventare giganti pur mantenendo pelli-cortecce sottili, lisce e luminose.

Non bisogna fraintendere l’atteggiamento di apparente chiusura del Faggio come una fuga dalla realtà, o come snobismo. Bisogna invece apprendere da esso l’indipendenza e la forza dell’autoconsapevolezza e dell’autodisciplina. Proteggere il nostro spazio sacro ed essere capaci di bastare a noi stessi ci permette infatti di conservare la nostra sensibilità alla Luce.

“Divieni la tua opera d’arte” ci dice la saggia voce del Faggio, “Trasformati in ciò che sei veramente. Esigi con dolcezza tutta la Bellezza che ti meriti. Non temere, hai la forza di mille radici che ti nutre e le tue foglie tenere si alimentano dell’energia del Sole. Non ti manca nulla. Abbi pazienza, coltiva i tuoi talenti, non svenderti, non concederti a compagnie inappropriate. Abbi il coraggio di scegliere la solitudine, se necessario, e impara ad amarla. La solitudine ti insegna la libertà.  Ci vogliono cent’anni per costruire una cattedrale ma, una volta finita, sarà facile intuire che non poteva essere altrimenti e che ne è valsa la pena fino all’ultimo secondo, fino all’ultimo centimetro, fino all’ultima radice, foglia, micelio di fungo. E nella tua cattedrale gli occhi della Dea, i tuoi occhi, ti osserveranno quieti, dandoti l’unica risposta possibile.”

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Bibliografia:

-Adams M., The Wisdom of Trees, Head of Zeus Ltd, London 2014

-Angelini A., Il serto di Iside, Kemi, Milano 2008

-Barnard J., Fiori di Bach, Forma e funzione, Tecniche nuove, Milano 2004

-Bosch H., Satanassi L., Incontri con lo Spirito degli Alberi, Humus Edizioni, Sarsina 2012

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

Campanini E., Manuale pratico di gemmoterapia,  Tecniche Nuove, Milano 2005

-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Hageneder F., Lo spirito degli alberi, Crisalide, Latina 2001

-Hidalgo S., The healing power of Trees, Llewellyn Publications, Woodbury 2014

-Motti R., Botanica sistematica e forestale, Liguori Editore, Napoli 2010

-Rigoni Stern M., Arboreto salvatico, Einaudi, Torino1996

-Scheffer M., Il Grande Libro dei Fiori di Bach, Corbaccio, Milano 2000

-Paterson J.M., Tree Wisdom, Thorsons, London 1996

-Spohn M. e R., Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio, Roma 2011

Stitched Panorama

Samhain: ogni Fine è un nuovo Inizio

Per i Celti, dal tramonto del 31 ottobre al tramonto del 1 novembre il velo che divide mondi si assottiglia, permettendo alle creature di dimensioni parallele di entrare in comunicazione. Durante quel giorno, gli spiriti degli antenati defunti e quelli degli Aos Sì, “coloro che vivono sotto le colline”, ovvero fate ed elfi, potevano incontrare i viventi e festeggiare con loro, oppure perseguitarli.

Nella tradizione celtica gli Aos Sì erano considerati essere gli spiriti dei Tuatha Dè Danann (“il popolo della Dea Dana”), ovvero gli antenati più antichi degli stessi Celti, la popolazione che viveva nelle terre celtiche prima di ritirarsi nell’Altromondo in seguito alle invasioni dei Milesiani, i figli mortali di Mil Espaine, un invasore proveniente dall’Iberia.

I Tuatha Dè Danann, sconfitti dai Milesiani, accettarono di andare a vivere sottoterra, sotto alle colline così diffuse e caratteristiche del paesaggio irlandese, chiamate in gaelico “sidhe”, termine con cui si possono indicare sia le semplici colline che, per estensione, anche le creature che ci vivono.

20245809 Plate 6 There is almost nothing that has such a keen sense of fun...

Anziché divenire divinità o fantasmi, divennero fate, elfi e folletti: un popolo governato da leggi differenti da quello umano, che vive in una dimensione parallela alla nostra, con cui a volte si intreccia.

E’ interessante notare che davvero i Celti usavano seppellire i loro avi sotto a colline, scavando tombe simili a case, decorate con incisioni spiraliformi e orientate astrologicamente. Nel caso del Mound of the Hostages, una tomba neolitica situata in Irlanda, nella valle del fiume Tara, l’ingresso è allineato con l’alba di Samhain (pronuncia “saah-win” o “saa-ween”).

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I Tuatha Dè Danann sono con ogni probabilità una stirpe realmente esistita, sconfitta dagli invasori e sterminata, sepolta dai sopravvissuti sotto a colline e divenuta leggenda fra gli uomini. Gli antenati anziché semplicemente morire hanno attraversato il velo delle dimensioni, cambiando realtà e trasformandosi in un popolo fatato che, a Samhain, è molto facile incontrare.

L’importanza delle feste stagionali (Samhain, Imbolc, Beltane, Lughnasadh) presso i Celti risale ad origini molto antiche. James Frazer, ne Il Ramo d’oro, fa notare che il 1 novembre nelle terre d’Irlanda non poteva essere una data collegata al mondo dell’agricoltura, in quando il clima è già troppo rigido e il raccolto è terminato. Invece, è proprio intorno a questa data che i pastori riportano il bestiame dai pascoli di altura estivi, per ritirarlo nelle stalle, preparandosi al gelo e al buio. Samhain sarebbe pertanto una festa legata al mondo pastorale e perciò arcaica, precedente lo sviluppo dell’agricoltura. E’ la festa che celebra l’annuale morte della Natura, la fine dell’anno lunare e l’inizio del nuovo (il capodanno lunare vero e proprio ha luogo con il primo novilunio dopo il giorno di Ognissanti, che quest’anno cadrà l’11 novembre). Se a Beltane, festa speculare a Samhain celebrata ogni 1 maggio, si festeggiano la luce e la vita facendo grandi fuochi e danzandovi intorno, a Samahin si danza intorno agli stessi fuochi per accogliere l’oscurità e onorare la morte.

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Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, in un remoto passato, a Samhain si svolgessero sacrifici di capi di bestiame e di esseri umani: il dio della vegetazione moriva e il suo sangue veniva utilizzato per fertilizzare la terra, per renderla ricettiva ai semi che vi avrebbero trascorso sognanti tutto l’inverno, germogliando soltanto mesi e mesi dopo, al ritorno della luce.

Samhain è una festa molto importante: è un rito di conclusione, di morte e rinascita (perché ad ogni fine corrisponde un nuovo inizio). I fuochi di Samhain servono a purificare, a bruciare il vecchio, ciò che non serve più, per permettere al nuovo di formarsi. Com Samhain celebriamo l’arrivo del buio e del freddo, riconnettendoci a quella rete della vita che ci fa tutti fratelli: onorando gli antenati, gli spiriti defunti, dai più vicini ai più remoti, alle origini della razza umana.

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Albero genealogico

Tradizionalmente, la sera del 31 si apparecchia la tavola aggiungendo un posto in più, per i morti. Si serve il cibo anche sul loro piatto e, alla fine del pasto, si pone quello stesso piatto fuori dalla porta, offrendolo agli spiriti che quella notte si aggireranno in questa dimensione.

Questo è un rito semplice che anche noi oggi possiamo ripetere. Samhain è un’ottima occasione per commemorare i morti del nostro lignaggio, vicini e lontani, onorandoli, invocando luce ed energie di guarigione per sanare i pattern negativi che ancora sopravvivono e ringraziando gli avi per i loro doni, per la vita, per i talenti che offriamo al mondo.

Milioni di madri hanno sofferto la gioia e il dolore del parto per permettere a noi di nascere. Siamo il frutto e l’anello di una lunghissima tradizione di amore, fatta da persone in carne e ossa, ognuna con i propri dolori, paure e fantasmi, che ci hanno trasmesso la vita facendo sempre il meglio che potevano. Samhain è il momento per riflettere su questo, per guarire e ringraziare. La Guarigione è un processo lungo, dura tutta la vita. E’ bello perciò dedicarle momenti sacri, in cui oltre che guarire noi stesse, guariamo anche il nostro lignaggio e, attraverso la rete della vita, il resto dell’umanità.

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Samhain è anche il tempo per rivolgere l’attenzione alla nostra interiorità, imitando ciò che fa la Natura: gli alberi fermano lo scorrere della linfa nei rami, concentrando tutta la loro vita sottoterra, dove la coltre di foglie e ghiaccio permetterà di mantenere il tepore. Sopra la Terra tutto sembrerà morto, mentre dentro, all’interno, la vita starà sognando forme e colori. Secondo Rudolf Steiner le stagioni corrispondono al ritmo del respiro della Terra: l’autunno è quando la Terra inspira, per poi trattenere il respiro durante l’inverno, espirare durante la primavera e rimanere in apnea d’estate, completamente esteriorizzata, in attesa del lungo inspiro che porterà nuovamente l’autunno.

Accogliamo il buio e il freddo sintonizzandoci con il nostro mondo interiore, concentriamoci sul respiro, poniamo attenzione a ciò che sentiamo dentro di noi. Tiriamo le fila dell’anno trascorso, buttando ciò che non serve più e ripulendo il nostro spazio, a tutti i livelli, da quello fisico a quello spirituale. Prepariamo un suolo fertile che accolga i semi dei nostri progetti futuri. Lasciamo dolcemente che la parte più attiva di noi vada in letargo e affiniamo i nostri sensi sottili. Facciamo lunghe passeggiate nei boschi, se possiamo. Proviamo ad ascoltare il rumore della Vita che sogna.

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Nota: tutti e tre i disegni riportati in questo articolo sono di Arthur Rackham (1867-1939), illustratore inglese che ha illustrato, tra gli altri, “Fiabe irlandesi” di Stephen James e “Alice nel Paese delle Meraviglie ” di Lewis Carroll.

Il Castagno: la Luce dal Profondo

Nome: Castanea sativa Mill. (oppure Castanea vesca Gaertn.), famiglia delle Fagaceae.

Il nome latino Castanea, identico in greco, deriva da Castanis, una città del Ponto, in Asia Minore, da cui si pensava che provenisse la pianta.

Botanica:

Il Castagno è un albero deciduo, probabilmente proveniente dall’Iran o dall’Asia Minore, che cresce nell’area del Mediterraneo, nei boschi mesofili tra i 500 e i 1200 metri di altitudine, tra la fascia degli Ulivi e quella dei Faggi. Può formare boschi puri o vivere in compagnia di altre latifoglie, sopporta abbastanza bene il freddo ma teme le gelate tardive. E’ un albero longevo, che nelle condizioni ideali può anche superare i mille anni. La sua chioma è ampia e rotondeggiante, e il tronco tende a svilupparsi al massimo fino a 35/40 metri in altezza, ma diventa molto robusto. Se viene tagliato, il Castagno butta numerosi polloni, che crescendo vicini possono anche arrivare a fondersi in un unico, nuovo tronco. Il suo apparato radicale è espanso e resistente, si insinua nel suolo in larghezza e profondità. La corteccia degli esemplari più giovani presenta lenticelle (fessure a forma di occhio che permettono gli scambi gassosi con l’esterno) ed è solcata da rughe longitudinali che, negli alberi più maturi, si dispongono a formare spirali antiorarie.

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Le gemme sono ovoidali, glabre e di colore rossastro. Le foglie, semplici e alterne, hanno forma allungata di lancia e possono raggiungere una lunghezza di 25 cm e una larghezza anche di 8 cm. Sono dentate in corrispondenza delle nervature, ricoperte da peluria quando giovani e poi glabre, con ghiandole giallastre sulla pagina inferiore e un picciolo breve. I fiori maschili e femminili crescono sulle stesse piante, ma tra i fiori di una stessa pianta non può avvenire la fecondazione. I fiori maschili sono amenti giallo-verdastri che si sviluppano ritti verso il cielo, mentre i fiori femminili sono piccole infiorescenze che nascono alla base dei fiori maschili e da cui si formerà il frutto: una noce (castagna) racchiusa in una cupola spinosa. In ogni cupola (o riccio) sono generalmente contenute da 1 a 3 castagne e quando giunge a maturità la cupola si apre spontaneamente in quattro valve, liberando i frutti. Il Castagno fiorisce a primavera inoltrata e i suoi fiori vengono  bottinati dalle api, nonostante l’impollinazione di quest’albero sia prevalentemente anemogama: il Castagno dona volentieri il suo polline agli insetti, che ne fanno un miele particolare, leggermente amaro e dal profumo intenso. I semi del castagno germogliano molto facilmente, indicando la grande vitalità dell’albero, il suo desiderio di vivere.

Per crescere rigoglioso il Castagno necessita di un suolo profondo e ricco di humus, tendente all’acido, poco calcareo: questa pianta infatti è calcifuga, ovvero mal sopporta la presenza di calcio nel terreno, prediligendo il fosforo e il silicio. Questa caratteristica già ci dice qualcosa sull’energia del Castagno: il calcio è un elemento che struttura e dà forza al materico, mentre fosforo (dal greco phosphoros: portatore di luce) e silicio sono figli della Luce, Luce della Terra.

Un altro genere di suolo che il Castagno ama è quello di origine vulcanica (di nuovo: fuoco della Terra, luce dal profondo).

Il Castagno è molto sensibile ad alcune malattie, che negli ultimi decenni ne hanno decimato i boschi (cancro corticale, mal dell’inchiostro, gli insetti che ne mangiano le foglie quali il balanino delle castagne, la tignola, la carpocapsa e il bombice dispari). Inoltre, dal 2002 è presente in Italia un insetto originario dell’Estremo Oriente, il cinipide galligeno del Castagno (Dryocosmus kuriphilus), che sta danneggiando pesantemente la popolazione di Castagni europea.

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Il cinipide punge le gemme e deposita le uova provocando la formazione di galle, cioè ingrossamenti di varie forme e dimensioni da cui poi, l’anno successivo, sfarfalleranno i nuovi insetti adulti. Questo interferisce con il ciclo vitale dei Castagni, spesso impedendone la fioritura o la fruttificazione, e sottraendo linfa ed energia vitale.

Mitologia e storia:

Non sembra che esistano miti riguardo al Castagno, o almeno io non sono riuscita a reperirne.

Quest’albero grandissimo e umile che da tantissimi secoli vive a fianco dell’uomo sembra non avere leggende che lo ritraggono, come se anche l’immaginario popolare l’avesse tralasciato… Vedremo più avanti che questa caratteristica ci dice molto sull’energia e il messaggio del Castagno.

Il Castagno era noto fin dall’antichità e fu portato in Europa dall’Asia Minore dai Greci, che diedero il via alla sua diffusione in tutto l’areale mediterraneo e anche più a nord, fino in Inghilterra (dove però quest’albero ha una stagione vegetativa molto breve e non vive più di 500 anni).

Fino a dopo il Medioevo, costituiva un’importante fonte di cibo (i suoi frutti ricchi di amido erano alla base dell’alimentazione di gran parte della popolazione) e di legname (i suoi tronchi duri alla decomposizione costituiscono un ottimo materiale per fondamenta e costruzioni).

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A dispetto dell’importanza sociale ricoperta però, Plinio lo svaluta. Parlando della castagne scrive: “Esse sono protette da una cupola irta di spine, ed è veramente strano che siano di così scarso valore dei frutti che la natura ha con così tanto zelo occultato. (…) Sono più buone da mangiare se tostate; vengono anche macinate e costituiscono una sorta di surrogato del pane durante il digiuno delle donne (qui probabilmente Plinio fa riferimento ai culti femminili di Cibele, Cerere e Iside, in cui era proibito l’uso di cereali, sostituiti con pane di castagne)”. (Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia)

Evidentemente, a Plinio sfuggiva qualcosa.

A partire dal Rinascimento, in concomitanza con il progresso tecnico in agricoltura e lo sviluppo crescente della cerealicoltura, il Castagno come fonte di cibo e legname iniziò a perdere importanza e gli uomini smisero di prendersi cura dei suoi boschi. La crisi della castanicoltura (a cui concorsero molteplici cause tra cui il cambiamento delle abitudini alimentari, l’introduzione di nuovi materiali quali il metallo e l’interesse verso altre essenze forestali da legno) continuò fino alla fine dell’Ottocento, quando ebbe inizio il suo vero e proprio declino, dovuto alle decimazioni causate dalle malattie che iniziavano a diffondersi (cancro del castagno e mal dell’inchiostro in primis).

Nonostante questa triste storia di abbandono e conseguente fragilità, il Castagno continua a vivere accanto alle comunità umane, offrendo al giungere di ogni autunno i suoi dolcissimi frutti.

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Oltre a costituire una fonte di nutrimento essenziale per i vivi, le castagne fin dall’antichità sono sempre state considerate anche cibo per i morti. In alcune zone della Francia e dell’Italia era (e da qualche parte ancora è) in uso consumare castagne nel giorno di Ognissanti, in corrispondenza a Samhain, la festività celtica legata dall’apertura dei confini tra i mondi e all’inizio del nuovo anno lunare. Nella tradizione popolare le castagne costituiscono il pasto rituale della veglia del giorno dei morti, e in certe case si lasciano le castagne sul tavolo, come omaggio ai defunti. Nella Vienne, in Francia, durante la notte che precedeva il 31 ci si riuniva nei castagneti per cuocervi le castagne.

Secondo Angelini, il Castagno è governato da Giove (funzione primaria) e da Venere (funzione secondaria) ed è legato alla fonte dell’Energia Ancestrale che secondo i Cinesi e gli Egizi esce dai reni, si dirige verso gli organi genitali e risale lungo il meridiano posteriore e anteriore fino alla sommità del cervello, per entrarvi e uscire di nuovo terminando nell’interno del labbro superiore e inferiore.

Uno degli alberi più famosi e vecchi d’Italia è il Castagno dei Cento Cavalli, che vive forse da più di tremila anni nel comune di Sant’Alfio, sulle pendici dell’Etna. Si narra che sotto i suoi rami trovarono rifugio durante un temporale Giovanna d’Aragona e i cento cavalieri che l’accompagnavano per una gita sul vulcano.

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Fitoterapia:

Le foglie del Castagno sono state utilizzate fin dall’antichità (da sole o in associazione ad altre piante quali l’Eucalipto e il Timo) nelle affezioni delle vie respiratorie in virtù delle loro proprietà espettoranti, sedative della tosse e batteriostatiche.

Le gemme agiscono sui vasi linfatici, con una funzione di drenaggio sulla circolazione linfatica degli arti inferiori, dove la stasi linfatica è responsabile di edemi e senso di pesantezza (il Castagno, come si nota dalle spirali ascendenti della sua corteccia e dalla direzione dei fiori maschili, hanno la capacità di far fluire l’energia dal basso verso l’alto, si nutrono della Luce che trovano incastonata del buio della Terra, incanalandola verso il Cielo).

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Il gemmoderivato Castanea vesca gemme associato a Sorbus domestica gemme è un ottimo rimedio per l’insufficienza venosa degli arti inferiori, mentre associato a Aesculus hippocastanum è efficace nel trattamento dell’eritema eczematoso degli arti inferiori. Insieme a Castanea vesca foglie, invece, è utile contro a cellulite (angiocapillarite sottocutanea) (Campanini E., Manuale pratico di gemmoterapia).

In floriterapia, con i fiori del Castagno si prepara tramite bollitura l’essenza Sweet Chestnut, un rimedio vibrazionale molto potente e di grande importanza, che ci parla di Luce nelle tenebre e che corre in aiuto di coloro che stanno attraversando “la notte oscura dell’anima” (San Giovanni della Croce definisce così il viaggio attraverso il buio e la disperazione che affrontano le anime durante il progresso della loro unione con il principio divino).

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La grande floriterapeuta Mechthild Scheffer scrive a proposito dell’essenza floreale: “Lo stato Sweet Chestnut è legato al principio della liberazione. Nello stato Sweet Chestnut negativo l’individuo arriva a convincersi che per lui non esiste alcuna speranza di aiuto.” (Scheffer M., Il Grande Libro dei Fiori di Bach)

L’essenza dei fiori di Castagno ci soccorre nell’ora della verità, durante il confronto estremo della personalità con se stessa, durante il suo ultimo tentativo di opporsi a un cambiamento interiore decisivo da cui sente, erroneamente, di doversi difendere. Questo stato è la notte senza la quale non può sorgere un nuovo giorno e Sweet Chestnut porta un barlume di Luce in tutto questo gran buio, risvegliando in noi la capacità di avere fiducia nonostante le avversità, permettendoci di attraversare la fasi dolorose di inevitabile trasformazione senza smarrirci o crollare del tutto. Nel momento in cui lasciamo andare anche l’ultima resistenza, quando sfiniti dalla lotta cediamo e ci abbandoniamo a ciò che ci appare come la fine di tutto, decidendo che non abbiamo più la forza di opporci al destino e che accetteremo ciò che dovrà succedere… Proprio in quel momento, qualunque cosa accada, avviene la magia: la trasformazione che così tanto temevamo può avere luogo, liberandoci finalmente dal nostro vecchio sé, dall’esistenza passata, dal dolore, rigenerandoci e facendoci rinascere alla Luce. Sweet Chestnut risveglia in noi l’intuizione di questa possibilità, facendo vibrare la nostra Luce dal profondo e donandoci fiducia nel fluire dell’Universo, sostenendo tutti i processi di grande dolore e trasformazione, accompagnandoci nel viaggio attraverso la Notte, la Morte, l’Aldilà, senza dimenticare che, alla fine del buio, sorgerà un nuovo Sole.

L’energia del Castagno:

Quella che si sente camminando in un bosco di Castagni è una sensazione particolare. Ci si sente circondati da un’attenzione silenziosa, accolti e abbracciati dalle fronde degli alberi, come se questi ci osservassero, desiderosi di conoscerci e un po’ emozionati. L’energia che circola è molto intensa e si sente un fervere di attività sottile e vibrante tutto intorno.

Il Castagno è un albero speciale. L’uomo lo ha portato in Europa dall’Asia interessato alla sua utilità e il Castagno, generosamente, si è adattato ai nuovi climi, formando boschi vicino agli abitati dove gli uomini potevano comodamente andare a raccogliere legna e nutrimento. Nonostante amasse climi più caldi, ha accettato di crescere in Europa, fiorendo molto tardi e ogni anno quasi disperando di poter sbocciare in nuovi fiori. Eppure ha resistito, anzi la sua vitalità gli ha permesso di diffondersi, i suoi germogli attecchiscono con facilità e i suoi frutti cadono numerosi dai rami in ottobre, producendo quei tonfi secchi che sono per eccellenza il rumore dell’Autunno.

Ma l’uomo non ha mai avuto grande rispetto per quest’albero. Non lo ha onorato con miti e leggende, nonostante sia evidente che i suoi boschi pullulano di gnomi, fate e folletti. Non appena ha avuto un’alternativa, ha abbandonato i castagneti a se stessi, sostituendo i loro doni con prodotti considerati più efficienti o più facili da utilizzare, recandosi fra i loro tronchi amichevoli soltanto nelle domeniche di ottobre, per depredarli delle castagne, raccogliendo frettolosamente i frutti tra il fogliame caduto che ricopre il suolo di mille sfumature di colori caldi.

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E’ come se ogni autunno i Castagni preparassero per la maturazione dei loro frutti una grande festa colorata, cercando di risollevarsi dalla tristezza dell’abbandono, e quasi nessuno ci facesse caso. Le famiglie di umani, nelle domeniche di ottobre, si addentrano nei boschi schiamazzando allegre con i cesti in mano, raccolgono più castagne che possono (sempre meno, viste le malattie che hanno decimato la produzione) e poi se ne vanno a pranzare in qualche ristorante senza ringraziare i loro ospiti arborei. I Castagni nel pomeriggio di queste domeniche rimangono di nuovo soli, depredati e immersi nel silenzio. Nessuno si è accorto di loro, per l’ennesima volta li hanno solamente usati.

Questa storia triste accade continuamente nel mondo, non solo ai Castagni. Ma questi alberi sono particolarmente sensibili proprio perché amano molto l’uomo, così come amano tutte le creature. L’abbandono li rende esposti alle malattie e la loro vita si fa ancora più cupa, giungere a frutto diventa ancora più difficile.

I Castagni sono alberi ospitali, amichevoli, generosi. Hanno chiome frondose e tronchi possenti anche se a volte pare che si sfaldino. Ma soprattutto, hanno la capacità di connettersi con la Luce contenuta nella viscere della Terra e di lasciare che questa li attraversi, sotto forma di energia, liberandola nell’atmosfera. Il Castagno ha qualcosa che lo rende una creatura ultraterrena, che cerca ovunque la Luce e che di Luce è fatta. Non desidera il calcio (che è materico e dà struttura) ma fosforo e silicio, il suo tronco è avvolto da spirali, i suoi fiori si sporgono verso il sole, le api (esseri intimamente legati all’elemento Fuoco) amano il suo nettare e i suoi frutti sono pieni di Fuoco… Il Castagno è un albero della Luce, un albero magico che riesce a sopravvivere in un mondo che non sa ascoltare il suo linguaggio. Il Castagno resiste, non perde la sua grandezza, è sempre amichevole e le forme di vita della Natura lo adorano: fra i suoi rami vivono moltissimi insetti, uccelli e piccoli mammiferi, oltre che numerosi esseri elementali.

Le sue mille voci ci mormorano segreti che provengono da altre dimensioni, memorie cosmiche, melodie antichissime.

In un bosco di Castagni ho incontrato uno gnomo. Almeno credo che fosse uno gnomo, perché non l’ho proprio visto. Per scorgere gli elementali occorre essere molto allenati, non avere barriere mentali a sbarrarci la percezione, ma in ogni caso vederli non è necessario. Basta sentirli.

Stavo in ascolto e avevo comunicato agli alberi la mia apertura a ricevere il loro messaggio. Era l’inizio dell’autunno, ancora le foglie erano verdi ma si respirava già un’aria diversa, già le prime castagne schioccavano giù dai rami sul terreno. D’un tratto, alle mie spalle ho percepito una presenza. Mi sono voltata e ho capito che di fronte a me, vicino a un tronco, c’era uno spirito del bosco. Era piccolo, proprio come immaginiamo sarebbe uno gnomo. Era arrabbiato. Mi ha detto soltanto “Lasciateci in pace!” e poi se n’è andato.

Sul momento ci rimasi male. Pensai “Ma come, io sono qua in ascolto e voi mi dite soltanto questo!”. Ma poi mi guardai intorno. Sentii l’enorme bontà, la Luce che filtrava dalle grandi creature che mi circondavano quasi abbracciandomi, offrendomi con semplicità tutto il loro Amore. Lo gnomo aveva espresso, a buon diritto, l’insofferenza del bosco e dei suoi abitanti verso l’uomo-rapace, che schiamazza e fa rumori molesti, che depreda oppure abbatte, che prende senza ringraziare, che non sa vedere, non sa ascoltare, che dimentica… Per lo gnomo io non ero altro che una di “quelli lì”, che fanno casino e portano distruzione. E aveva fatto molto bene a dirmi quello che mi aveva detto, perché così io avrei potuto ripeterlo ai miei compagni umani: “LASCIATELI IN PACE!”

I Castagni, loro, non avrebbero mai usato un tono del genere. Ma è ormai evidente che la disperazione (il polo negativo della Luce immensa di questi alberi) li sta fiaccando sempre più. Gli gnomi sono arrabbiati perché essi conoscono l’importanza dei Castagni e sono stufi di vedere le loro case depredate dall’uomo.

Le malattie li assediano e i Castagni faticano a reagire. L’uomo non ascolta il loro grido. Cosa desiderano i Castagni? Io non lo so. Non so neanche se fra le loro attività vi sia qualcosa come “desiderare”. So però che si meritano una mitologia, delle storie che li raccontino, attenzioni, cure e rispetto, ammirazione per la loro incomparabile bellezza e per la loro abbondanza, generosità, amicizia… Soprattutto, come ogni altro albero e creatura, meritano di essere ascoltati e amati. E anche noi, stupidi piccoli uomini che non sanno vedere, ci meriteremmo di imparare ad ascoltarli e ad amarli. La Luce che ancora risplende in essi rifulgerebbe allora come una cometa, colmando le nostre vite. Abbracciamo i Castagni, sentiamo la Luce che scorre attraverso i loro corpi. Lo scambio energetico che avviene quando abbracciamo un albero è terapeutico sia per noi che per loro. Abbracciamoli! Uniamo la nostra energia a quella dei Castagni, per attraversare la disperazione onorando la Luce dentro di noi.

Onore ai Castagni perché, per quanto dolore li assedi, sono sempre donatori di vita, esseri di Luce, grandi amici del piccolo uomo!

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Bibliografia:

-Angelini A., Il serto di Iside, Kemi, Milano 2008

-Barnard J., Fiori di Bach, Forma e funzione, Tecniche nuove, Milano 2004

-Bosch H., Satanassi L., Incontri con lo Spirito degli Alberi, Humus Edizioni, Sarsina 2012

-Brosse J., Mitologia degli alberi, Rizzoli, Milano1991

Campanini E., Manuale pratico di gemmoterapia,  Tecniche Nuove, Milano 2005

-Campanini E., Dizionario di fitoterapia e piante medicinali, Tecniche Nuove, Milano 2004

-Cattabiani A., Florario, Mondadori, Milano 2013

-Motti R., Botanica sistematica e forestale, Liguori Editore, Napoli 2010

-Rigoni Stern M., Arboreto salvatico, Einaudi, Torino1996

-Scheffer M., Il Grande Libro dei Fiori di Bach, Corbaccio, Milano 2000

-Spohn M. e R., Guida agli alberi d’Europa, Franco Muzzio, Roma 2011

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Ambra, la pietra solare della Grande Madre

L’Ambra non è un minerale, ma una resina fossile. Il reperto di Ambra più antico risale al tardo Carbonifero (320 milioni di anni fa), ma i reperti più abbondanti appartengono a un periodo di circa 123-135 milioni di anni fa, al periodo Cretaceo.

A quell’epoca il Nord Europa era ricoperto da immense foreste di conifere appartenenti a una specie ora estinta (Pinites succinifer o Pinus succinifera), i cui tronchi essudavano una resina terpenica non molto diversa da quella prodotta oggi da pini e abeti. Quando le foreste vennero ricoperte dal mare, la resina finì sul fondale e venne sepolta da strati di sabbia e detriti che si trasformarono in rocce sedimentarie al cui interno, grazie al calore e alla pressione, la resina solidificò, incontrando le condizioni adatte per conservarsi fino ai giorni nostri.

Un tempo, i popoli baltici raccoglievano l’Ambra lungo le rive del mare. Durante le mareggiate, ciottoli di Ambra grezza venivano staccati dalle rocce che li includevano e sospinti fino al bagnasciuga. Le popolazioni indigene che la raccoglievano la utilizzavano come combustibile, come incenso o come ornamento, oppure vi scolpivano talismani e figure di animali magici o genitali, utilizzati per propiziare la fertilità. L’Ambra è la pietra preziosa più antica: già nel Paleolitico veniva impiegata in rituali o come gioiello: collane d’ambra e talismani sono stati rinvenuti in numerose tombe preistoriche in tutta Europa e nel Mediterraneo.

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Grazie agli scambi con i mercanti infatti, lungo quella che prese appunto il nome di Via dell’Ambra, questa pietra raggiungeva luoghi anche molto lontani, come il Medio Oriente o l’Egitto, e il suo mistero affascinava tutte le culture con cui giungeva in contatto: la sua luce, il fatto che a volte portava incastonati insetti o piccoli rettili o fiori, e la sua capacità di elettrizzarsi se strofinata con lana o seta.

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Il termine con cui la chiamavano i Greci era infatti elektron, da cui proviene l’italiano elettricità. Il termine Ambra invece viene dal suo nome arabo: anbar.

Plinio il Vecchio, nel II sec. d.C.,  già supponeva si trattasse di un prodotto di origine vegetale, infatti si riferisce all’Ambra con il termine succinus, ovvero succo di alberi. Aveva notato infatti che l’Ambra, se bruciata, produce un odore simile a quello delle altre resine. Ma oltre a questa numerose teorie erano state formulate in merito alla sua formazione, tra cui quella di Nicia, molto suggestiva, che supponeva si trattasse di raggi di sole al tramonto solidificati.

Pytheas di Marsiglia, nel IV secolo a.C., fu forse il primo Greco a visitare le terre del Nord e a descriverle nel suo libro, Sull’Oceano, andato perduto e giunto a noi solo sotto forma di frammenti citati da altri autori, tra cui lo stesso Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Pytheas, commerciate marsigliese, comprò una nave con la quale compì il periplo delle coste d’Europa, dal sud della Francia fino ai Paesi Baltici, dove scoprì la terra quella che lui chiama l’isola di Abalo (ancora non esattamente individuata, forse identificabile con l’Heligoland o la penisola di Samland), luogo d’origine dell’Ambra.

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Secondo alcune leggende proveniva dall’India, secondo altre dall’Africa, secondo altre ancora da certe isole chiamate Elettridi situate alla foce del Po. Il mistero sulle origini di questa pietra era alimentato probabilmente anche dai mercanti, che preferivano tenere nascosta l’esatta provenienza di una delle loro merci più preziose, che gli indigeni vendevano per pochissimo e che nel Mediterraneo era invece acquistata come bene di lusso.

Un mito greco narra che quando Zeus colpì Fetonte, figlio di Apollo, con un fulmine, per fermare la sua pazza corsa attraverso il cielo a bordo del carro del Sole (aveva già bruciato un pezzo di cielo, formando la Via Lattea, e un pezzo di terra, trasformando la Libia in deserto), il giovane cadde morto sulle rive del fiume Eridano (il Po) e le sue sorelle, le Eliadi, lo piansero con così tante lacrime che Zeus, impietosito, le trasformò in Pioppi, e le loro lacrime in grani d’Ambra.

Nei Paesi Baltici invece le origine dell’Ambra vengono fatte risalire a quando Juraté, regina del mare, si innamorò di Kastytis, un pescatore. Il padre della dea, geloso, punì l’amore della figlia distruggendo il suo palazzo di Ambra e trasformando lei stessa in schiuma di mare. I pezzi del palazzo di Juraté, sotto forma di grani, si sparpagliarono per il mare, e a volte raggiungevano le sue rive…

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Nonostante un tempo l’Ambra si raccogliesse come conchiglie lungo la riva del mare, oggi per procurarla è quasi sempre necessario effettuare delle trivellazioni, che vanno a recuperare l’Ambra ancora incastonata nei fondali marini. Un metodo sicuramente meno romantico, e molto più violento, che risveglia questo fossile dal suo lungo sonno senza attendere che la Natura lo consegni spontaneamente alle rive del mare…

Altre varietà di Ambra, oltre all’Ambra baltica (la più famosa e diffusa) sono quella dominicana e quella messicane (risalenti a epoche più recenti – circa 40 milioni di anni fa) e la simetite, estratta in Sicilia e risalente al Miocene.

La natura dell’Ambra in quanto pietra è molto particolare. Trattandosi di un fossile di origine vegetale, le sue vibrazioni sono più simili a quelle del mondo organico rispetto a quelle di altre pietre. Inoltre, la sua genesi e la sua storia la collegano intimamente all’Akasha, quel tessuto di informazioni vibrazionali in cui ogni evento accaduto rimane registrato. L’Ambra non proviene dalle viscere della Terra, come i minerali, ma è nata sulla superficie del pianeta, come noi, ed è stata parte di un albero, ne è stata il pianto. Milioni di anni fa ha iniziato il suo lungo viaggio, durante il quale è sprofondata sui fondali marini per trasmutarsi in pietra preziosa. Gli antichi reputavano l’Ambra un essere vivente, e in effetti essa lo è, è viva (come del resto lo è ogni pietra, viva, anche se di una vita molto lontana dal nostro tempo, una vita lentissima per noi, di contemplazione profonda), è viva e carica di memorie della Terra. Nelle sue cellule sono rimaste impresse le vibrazioni energetiche di milioni di anni di trasformazioni, nella sua trama sono intessute le memorie dei boschi primordiali, del mare e anche del Fuoco, perché essendo resina, è legata all’elemento Fuoco e al calore che le conifere distillano e sprigionano grazie al loro metabolismo interno.

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E’ perciò una pietra, se per praticità così vogliamo chiamarla, molto interessante: il suo patrimonio di memorie le conferisce una saggezza profonda, che attraversa le epoche. La sua vibrazione a contatto con l’aura umana è diversa da quella delle altre pietre: è meno precisa, il suo raggio meno “chirurgico” nell’azione, il suo effetto più rotondo, dolce, simile a quello dei vegetali per l’appunto.

L’Ambra è una pietra di Terra e di Sole, legata al culto della Grande Madre nella sua forma di Signora del Mare. Nell’Ambra gli elementi danzano insieme e si tengono abbracciati: la Terra, il Fuoco, l’Etere (Akasha), l’Acqua e anche l’Aria, contenuta nei grani sotto forma di bollicine di eterno presente. La sua sacralità veniva riconosciuta già nella preistoria, quando già la si utilizzava in rituali magici legati alla fertilità e al culto della Dea, di cui l’Ambra rappresentava il volto solare.

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Anche questo aspetto la rende speciale: il Sole è generalmente associato al principio maschile, mentre l’Ambra ci mostra la forza e l’autorità solare in tutta la loro femminilità, superando la dualità nella fusione degli opposti.

L’Ambra è una pietra di grande protezione, che sostiene i processi di guarigione e di riequilibrio energetico, ispirando saggezza e centratura. E’ una pietra di terzo chakra (Manipura), come mostra il suo colore giallo, ma anche in questo è particolare: l’Ambra infatti stimola le qualità più femminili legate al terzo chakra, le sue qualità più interiori: utilizzata come gioiello o nella meditazione ci aiuta a trovare il nostro centro, il nostro equilibrio interiore, l’autostima e la fiducia in noi stessi, sviluppando il lato femminile dell’autorità e della forza.

L’Ambra ci dice che soltanto da un cuore aperto e da un sole interiore che vibra ad elevata frequenza possono nascere azioni efficaci e scelte giuste. La tenacia, la determinazione, la perseveranza, la forza (tutte qualità del terzo chakra) si disperdono se alla loro origine non hanno un sole splendente, un palazzo dorato, un grande lago calmo le cui acque sono continuamente alimentate da una sorgente di luce interiore.

L’Ambra inoltre stimola anche il secondo chakra, Svadhisthana, legato all’energia creativa e alla fertilità, non solo biologica) e il quarto chakra, Anahata, il chakra del Cuore, connesso all’Amore per se stessi e per gli altri. Indossare una collana di grani d’Ambra (facendo attenzione che si tratti di Ambra naturale  e non di una delle numerose contraffazioni in commercio o addirittura di un falso in plastica o vetro) stimola tutti e tre i chakra, donandoci fiducia in noi stessi, apertura di cuore e stimolando la nostra creatività. La sua azione è più delicata e necessita di più tempo rispetto a quella di altri cristalli, ma la sua dolce luce penetra in profondità nella nostre cellule, sostenendoci anche nei periodi più oscuri.

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Un uso molto specifico di questa pietra è legato al suo potenziale akashico. L’Ambra è una pietra della memoria, e come tale può essere d’aiuto durante le meditazioni volte a far emergere dal mare del nostro inconscio ricordi sepolti, antichi, risalenti forse ad altre vite. Con la sua luce interiore e il suo calore, l’Ambra ci protegge e ci permette di contemplare questi grani di memoria inondandoli di sole e donando loro un senso nel contesto della nostra vita. Questo è però un uso molto avanzato e delicato dell’Ambra, un uso sacro, un dono offerto a chi è pronto per esplorare la sua connessione con l’Akasha ed espandere la consapevolezza del Sé.

L’Ambra è la pietra della Dea, un gioiello da Regine. Le donne la possono indossare per risvegliare la Dea dentro di sé, e gli uomini per dare più spazio al proprio lato femminile, per renderlo più fiero, più robusto.

Rudolph Steiner consigliava di far indossare collanine d’ambra anche ai bambini durante la dentizione, in quanto riteneva che questa pietra facilitasse il processo. In effetti, l’Ambra è portatrice di energia solare e protettrice di tutti i processi di crescita.

Secondo alcuni testi del Buddhismo Mahayana, l’Ambra è la pietra preziosa associata simbolicamente al quarto dei Sette Gioielli (sette virtù), e cioè a spathika, il gioiello dell’altruismo (che secondo altri testi è invece simboleggiato da perle o dal cristallo).

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La Visione dell’Ambra:

L’Ambra parla con voce di miele. E’ la voce della Dea Madre, Iemanjà, che abita il Mare. I suoi capelli sono schiuma dorata dai raggi del Sole, il suo corpo sono le Acque, sull’orlo delle sue vesti si stendono immense Foreste verde scuro.

Figlia alchemica del Mare e degli Alberi, io porto il Sole dentro di me. Porto i segreti degli insetti, la memoria di boschi sommersi, la musica di millenni di onde. Sono lacrime di Luce, grani d’Estate, il mio calore è un calore antichissimo, generato da un Fuoco nato milioni di anni fa e mai estinto. Il Fuoco non si spegne, ma si trasforma di continuo. Io ne sono la prova vivente. Io vivo nel contatto profondo, con me ritornano le memorie del Mondo custodite dal Mare dell’Inconscio.

Sono essenza di Bosco solidificata e la mia Luce ti collega all’infinito Akasha, dove puoi ritrovare la tua connessione all’Uno. Esisto grazie al tempo, proprio come te, ma il tempo non mi imprigiona. E’ solo un modo di essere, un ponte verso il Sé. Oltre il tempo, io sono ancora resina di alberi in foreste lussureggianti, sono ancora calore di fuoco, sono ancora ciottolo nel mare profondo che protegge la mia cottura lunghissima, la mia trasmutazione. Sono ancora zanzara e felce, sono bolla d’aria, sono schiuma di mare e sabbia, sono corteccia, ago di pino, balsamo, fumo d’incenso, sono talismano, sono raggio di Sole, moneta di scambio, monile divino, lacrime di donne albero, scaglie di un palazzo sottomarino. Sono tutte queste cose e molte altre ancora. Non c’è limite al mio essere, sono tutto contemporaneamente e reco in me la memoria delle Stelle. Nel mio corpo sono registrate vibrazioni marine, terrestri e cosmiche di milioni di anni, eppure sono leggera, quasi trasparente, tiepida. Puoi portarmi con te e quando mi guardi ricordare le ere che contengo. Io ti faccio dono di me, adagiandomi sulla riva del Mare, perché tu possa apprendere la mia saggezza e viaggiare insieme a me oltre il Tempo, nell’Akasha. Figlia alchemica del Mare e degli Alberi, sono il tuo gioiello. Vestimi e diventa la Dea che già sei.

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Parole chiave: protezione, guarigione, fiducia in se stessi, Grande Madre, memoria akashica

Colore: giallo oro con sfumature arancio, marroni o verdi

Chakra stimolati: II, III, IV

Per approfondire:

-M.Gienger, L’arte di curare con le pietre, ed. Crisalide, Spigno Saturnia, 1997

-K.Raphaell, La luce dei cristalli, ed. Verdechiaro, Baiso, 2012

Stony beach of Baltic Sea

Meditazione del Naufrago

Prima di iniziare questa meditazione, sdraiati a pancia in su in una stanza in penombra, avvolta dal silenzio o con una musica rilassante in sottofondo. Connettiti al tuo respiro e, per qualche minuto, pensa solo a quello. Senti il tuo addome sollevarsi mentre inspiri e quando espiri lascia che ogni tensione scivoli via dal tuo corpo e venga accolta da Madre Terra, che tutto trasforma nel suo ventre generoso. Ascolta il tuo respiro. E’ grazie a questo alternarsi di vuoto e di pieno, questa altalena fra dentro e fuori, questo intervallo tra due apnee che tu sei viva. Ascolta il tuo corpo respirare e lascia che la Terra ti sostenga. Lascia andare ogni tensione, sempre di più ad ogni respiro, abbandonati al suo ritmo dolce. E’ il tuo ritmo, il ritmo della tua vita. Seguendo la sua danza, lascia andare ogni fardello, ogni pensiero, ogni contrazione muscolare inutile. Stai qui con te, sei al sicuro adesso. Respira… Quando senti di avere raggiunto uno stato di rilassamento e connessione, inizia la meditazione, che avrai letto alcune volte in precedenza per impararne i passaggi o che avrai registrato in modo da poterla ascoltare.

Ti svegli sdraiata sulla riva del mare. Il sole scalda il tuo corpo e le onde delicate ti lambiscono i piedi, fino alle caviglie. Sopra di te, il cielo è sereno, limpidissimo, e i gabbiani lo attraversano con ampi voli ad ali tese. Non ricordi nulla, se non che la notte prima c’è stata una grande burrasca e la tua nave ha fatto naufragio. Quando sei caduta in mare nel buio, prima di perdere i sensi, hai creduto che saresti morta e hai detto addio a tutto.

Invece ora ti sei svegliata qui. Ma non ricordi nient’altro. Non ricordi chi sei né che lavoro facevi o dove era diretta la nave su cui ti trovavi.  Forse stavi scappando da qualcosa, forse stavi andando da qualcuno. Non ricordi, tuttavia ti senti molto tranquilla. I tuoi vestiti sono a brandelli, solo stracci ormai. Ti guardi intorno. La spiaggia è deserta: a parte te e i gabbiani non c’è nessun altro. Ti alzi in piedi ed esplori. La mareggiata della notte scorsa ha lasciato ammassi di alghe lungo la riva. Dopo la spiaggia inizia subito la foresta tropicale. Ci sono palme e liane, una vegetazione lussureggiante. Ti addentri nella foresta e vedi uccelli colorati che cantano volando bassi tra le fronde. Trovi anche un corso d’acqua limpida. La bevi e senti che è buona, fresca e placa la tua sete. Ti sciacqui il viso con quest’acqua dolce e giovane. Da un albero vicino a te pendono alcuni frutti maturi, arancioni e rotondi. Ne cogli uno e lo assaggi. E’ delizioso, la polpa è dolcissima, morbida. Mangiarlo ti sazia. Ora che sei all’ombra degli alberi, nella frescura, ti accorgi che la tua pelle abbronzata ha un forte odore di sale e di sole, intenso e buonissimo. Ti spogli dei brandelli di vestiti che ancora ti rimanevano addosso e resti nuda. Un brivido di puro piacere ti sale lungo la spina dorsale, contagiando poi ogni cellula del tuo corpo. Ti senti viva, sei completamente assorbita dal presente. Non hai memoria, né preoccupazioni. Hai tutto ciò che ti serve. Il profumo dell’aria che ti circonda sa di fiori e il torrente canta tra le foglie grandi che colorano l’ombra di tanti verdi diversi. Una farfalla enorme passa a pochi centimetri dal tuo naso e va a posarsi s’un fiore dai lunghi petali rossi. Inspiri ed espiri profondamente. Senti i muscoli delle spalle sciogliersi, come se per la prima volta dopo tantissimo tempo avessero lasciato andare un grande peso.

Quando lo desideri, torni sulla spiaggia, nel sole del mattino. Una leggera brezza spira dal mare.  La sabbia è bianca e l’acqua così azzurra e luminosa da sembrare fosforescente. Cammini lungo la riva e d’un tratto, vicino alle alghe, trovi un oggetto che prima non avevi notato. Ti chini e lo raccogli, lo osservi rigirandolo fra le mani. E’ un oggetto che viene dal tuo passato e risveglia in te un ricordo. Uno solo. Continui a non sapere chi sei e da dove vieni, ma questo oggetto ha acceso una memoria che ora rifulge netta e isolata nella tua mente spaziosa. Assapora tutta la sua luce. Se si tratta di un ricordo gioioso, crogiolati nella gioia, senza pensare al passato e al futuro, a cosa è successo prima o dopo quel ricordo. Se si tratta di un ricordo doloroso, accetta la sensazione che porta con sé, accoglila, non rifiutarla. Lasciati attraversare dalla corrente di dolore e disperazione che evoca, vivila con ogni cellula, senza giudicare, senza pensare alle conseguenze. Concentrati sul ricordo soltanto, solo su quella immagine. E’ il tuo unico ricordo. Amalo. Amalo intensamente, che sia bello o che sia brutto, danza con lui lungo la riva del mare, lasciandoti trasportare dal ritmo del suo respiro. Guarda il ricordo respirare dentro di te, stringi l’oggetto fra le mani. Cullalo come un bambino.

Poi, quando ti senti pronta, lascia andare il ricordo. Lascialo passare attraverso di te come una folata di vento, per poi lasciarti libera. Lascia che si sciolga come una medusa arenata sulla sabbia, nel sole. Lascialo disfarsi, perché quel ricordo non sei tu. Se vuoi, lancia l’oggetto in acqua, offrendolo alla Dea del Mare, oppure seppelliscilo nel suolo scuro della foresta e offrilo alla Dea della Terra, oppure ancora, se vuoi, fai un piccolo fuoco e brucialo, offrendolo alla Dea dell’Aria e delle Nuvole. Liberati dell’oggetto rendendogli grazie, onora il tuo ricordo ormai scomparso. Le tue memorie sono la tua storia, ciò che ti ha resa quel che sei, e per questo devi onorarle. Ma esse ora non esistono più. L’unica ad esistere sei tu, viva, tutta intera, sola nel tuo immenso presente di luce. Continua a camminare sulla spiaggia, se vuoi corri, canta se vuoi, o tuffati in mare e nuota tra i pesci.

OM. Shanti. Shanti. Shanti.

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Ecate, il volto oscuro della Luna

Per i Greci Ecate era figlia dei Titani Perse e Asteria (dea delle stelle) e nipote della titanessa Febe (antica dea della Luna), ed era considerata una delle divinità più misteriose e potenti del pantheon. Rappresentata rarissime volte, il suo culto era però persistente in tutte le città e nelle campagne, e la pratica del Deipnon (la celebre Cena di Ecate) nella notte di Luna nuova di ogni mese, era ovunque diffusa e rimase a lungo anche dopo l’insorgere del cristianesimo, come pratica iniziatica e “sotterranea”.

Ecate è menzionata da Esiodo come divinità benevola che realizza i desideri di coloro che hanno il suo favore, e nell’inno omerico a Demetra si narra che fu proprio lei ad avvisare la madre disperata che la figlia Persefone era stata rapita da Ade e portata nell’aldilà. Questo ci testimonia, oltre che della natura materna e solidale della dea, anche del suo legame con Demetra e Persefone, divinità alle quali fu sempre connessa in virtù di un’origine comune: sono le tre divinità che simboleggiano i cicli delle stagioni e ciascuna di esse rappresenta un’età della donna: Persefone è la vergine, Demetra la madre, Ecate la vecchia saggia. E’ probabile che un tempo si trattasse dei tre volti di un’unica dea triplice che rappresentava la Natura, il Tempo ciclico e la Femminilità nella sua interezza.

Demetra e Persefone

Demetra e Persefone

Ecate è una psicopompa, una guida dell’anima (Persefone) nell’aldilà che essa conosce così bene, essendo una divinità liminale, una titanessa ma anche una dea, signora dei confini tra civiltà e terre selvagge, tra luce e buio, tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Ecate si sposta, la sua dimora è il ponte sottile di luce bianca della Luna che sta per scomparire.

Ecate è la figura femminile principale degli Oracoli Caldaici (celebri commentari di epoca ellenistica a un poema misterico molto più antico, composto da vari oracoli di origine babilonese) e la protettrice della Sibilla.

Viene a volte raffigurata con tre teste, ed è anche adorata come dea dei crocevia, dove tre strade si incrociano. La tradizione ermetica la rappresentava con una testa di cane, una di cavallo e una di serpente. E’ l’unica dea, oltre a Zeus, il cui potere si estende sui tre regni: terra, mare e cielo. Come la Luna, Ecate cambia volto e a volte scompare. I Greci la identificavano soprattutto con l’aspetto della Luna calante e nuova e con il mondo sotterraneo dei segreti e dell’aldilà.

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Per loro Ecate era una divinità ctonia, legata al mondo dell’oscurità, dei morti, degli spettri e della magia. Era la depositaria del sapere erboristico, dea delle pozioni magiche, dei farmaci e dei veleni (che in greco hanno si indicano con lo stesso termine: pharmakon), ed era inoltre l’unica oltre a Zeus ad avere il potere di avverare i desideri degli uomini o di negarne la realizzazione.

Una dea immensa, l’unica die Titani a non essere stata sprofondata da Zeus nel Tartaro dopo che gli dei dell’Olimpo li sconfissero, conquistando il potere sul Mondo. Una dea oscura, che Sofocle ed Euripide presentano come signora della stregoneria e delle Keres (demonesse figlie della Notte, che i latini chiamavano Tenebrae), profondamente legata anche al tempo della vecchiaia.

Molti indizi indicano un’origine preindoeuropea di Ecate. Prima che le ondate migratorie di Ioni, Eoli, Dori e Achei investissero il territorio greco, Ecate veniva già adorata, in una forma più luminosa probabilmente, la forma che mantenne anche in seguito in Tracia, dove era considerata la dea delle zone di confine e delle terre selvagge.

Per i Greci era una vergine, ma in alcuni miti si narrava fosse la madre di Circe, quindi un’antenata di Medea; in altri che avesse dato alla luce il mostro Scilla. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio si racconta che la maga Medea aveva imparato l’arte della magia direttamente dalle dea Ecate.

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Il suo nome ha una significativa somiglianza con quello di Heqet, dea egizia dal volto di rana che proteggeva le partorienti. Heqet era la dea levatrice, simbolo di fertilità e di nuova vita. E’ interessante notare anche che nella lingua degli Egizi la parola heka significava magia e conteneva al suo interno il termine ka, cioè anima, energia vitale. Heka era quindi la magia intesa come un rendere attivo il ka, plasmarlo, avere potere sull’energia vitale. Somiglianze così forti non possono essere casuali, così come il fatto che la rana sia un animale che dall’acqua passa alla terra, un animale quindi liminale, di confine, ci riporta alla natura di Ecate, ricollegandoci al tempo stesso con uno dei volti della Grande Dea Neolitica, spesso rappresentata in forma di rana quando associata soprattutto al culto della fertilità e alla protezione della nascita. Sono numerose le statuette ritrovate in vari siti archeologici neolitici in Europa e nel bacino del Mediterraneo che ci mostrano la dea con le gambe divaricate per partorire, che in effetti non sono altro che zampe di rana nella tipica posizione del nuoto.

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Ecate dea antichissima, Dea del Tempo Circolare, della magia, delle erbe, protettrice della vita. Il suo animale prediletto era il cane (altro indizio della sua origine non greca: presso i Greci i cani erano tenuti in scarso conto; e anche altro indizio del suo legame con le partorienti e il dare alla luce: il cane era sacro anche a Eileithyia, dea della nascita). Si diceva che il latrato dei cani annunciasse la sua presenza e durante le cene di Ecate era uso comune sacrificare un cane (spesso una cucciola dal pelo nero) a questa dea misteriosa. I cani sono i protettori della casa, guardiani dei cancelli e delle porte così come Ecate, protettrice delle soglie, purificatrice degli ambienti famigliari. Renderle onore mensilmente, nelle notti più buie, con cene a lei dedicate e offerte lasciate sulle porte o presso i crocevia, era considerato un rituale importante per purificare la casa dagli spiriti che la infestavano, invocando la protezione della Dea Oscura, signora dei confini che come una nera nuvola viaggiava attraverso i mondi al comando di schiere di spettri e di cani ululanti.

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Altri animali a lei sacri erano il serpente, il cavallo, la mucca, il cinghiale. Un mito dolcissimo spiega come mai anche la puzzola fosse un animale molto caro a Ecate (e di nuovo ci parla di protezione delle partorienti e della nascita). Si narra infatti che nella città di Tebe vivesse Galinthias, figlia di Proitos. Questa fanciulla era amica di Alkmene, figlia di Elektryon, incinta di Eracle. Quando venne il momento della nascita del semidio e le doglie iniziarono a tormentare Alkmene, le Moire e Eileithyia (la dea della Nascita), per solidarietà con Era (che con Alkmene Zeus aveva tradito per l’ennesima volta), incrociarono le braccia e in questo modo prolungarono il travaglio di Alkmene, senza permettere al bambino di uscire. Galinthias, temendo che i dolori terribili patiti dall’amica l’avrebbero fatta impazzire, corse dalle Moire e dalla dea Eileithyia e annunciò loro che per desiderio di Zeus Alkmene aveva dato alla luce un bambino e quindi era inutile continuassero a tenere le braccia incrociate. Costernate, le Moire sciolsero le loro braccia, così il lungo travaglio di Alkmene ebbe fine e immediatamente nacque Eracle. Ma non appena scoprirono l’imbroglio, le Moire si adirarono con Galinthias e per punizione la privarono dei genitali e la trasformarono in una puzzola, condannandola altresì a vivere in luoghi nascosti e ad accoppiarsi in maniera grottesca: sarebbe stata montata attraverso le orecchie e avrebbe dato alla luce dalla gola. Quando lo seppe, Ecate fu molto dispiaciuta per la severa punizione di Galinthias e per alleviare la sua pena la scelse come uno dei suoi animali sacri.

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Tra le piante di Ecate troviamo il Tasso, albero velenoso per eccellenza, dall’incredibile capacità di rinnovarsi, estremamente longevo, oscuro, portale di connessione fra i mondi; la mandragora, tipica pianta delle streghe, per scavare la cui radice spesso si ricorreva all’aiuto dei cani; l’origano eretico, il cipresso, l’aconito, la belladonna e l’aglio.

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Altri suo simboli erano le chiavi e la torcia: per aprire le porte e fare luce nel buio della notte.

Ecate dea guardiana, guida delle anime attraverso i mondi, signora delle erbe medicinali, conoscitrice dei segreti della Magia. E’ la saggezza femminile antichissima e profonda, temuta e rispettata perfino dal re degli dei, Zeus. Ecate conosce segreti noti soltanto a lei, sa volare (come sanno volare le sue figlie, le streghe), sa realizzare i desideri, ha potere sulle tempeste (ciò che la rende tra l’altro la patrona di pastorì e marinai).

Ecate è perciò anche la dea della vecchiaia delle donne e della menopausa, il tempo della vita in cui la donna diviene maga, padrona di tutti i suoi aspetti, libera dal ciclo riproduttivo. Ecate è la saggezza che deriva dalla conoscenza dell’oscurità, per questo divenne signora delle streghe e fu considerata un demone dal cristianesimo, senza tuttavia soccombere ma resistendo nel folklore e trasformandosi nell’amichevole, innocua Befana, la vecchia che vola nel cielo di notte, portando doni e realizzando i desideri dei bambini che hanno fatto i bravi. In realtà la Befana non è che un travestimento: Ecate è la Dea del potere femminile e delle conoscenze iniziatiche che attraversa i secoli, le ere, le religioni, amata e temuta da tutti, davvero immortale nella sua capacità di mutare forma, travestendosi ora da strega ora da vecchia zitella ma mantenendo sotto al mantello tutto il suo oscuro splendore e il suo bagaglio di sapere e potere. Dietro alle varie maschere, ognuna delle quali rappresenta un suo aspetto altrettanto reale che gli altri, si nasconde la Grande Dea, la Dea Triplice della Nascita e della Natura, del Tempo Circolare (il ciclo lunare, quello mestruale e quello delle stagioni, ma anche i cicli più lunghi dei pianeti e del cosmo).

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William Blake, La Triplice Ecate (The Night of Enitharmon’s Joy)

Invochiamo Ecate quando vogliamo contattare la strega che è in noi, la vecchia saggia e potente. Chiediamo la sua guida attraverso le terre oscure del nostro inconscio, affidiamoci a lei per attraversare la nostra notte. Rendiamole onore e purifichiamoci in suo nome, affinché i nostri corpi e le nostre case siano protette contro l’azione malvagia degli spiriti senza pace. Fidiamoci del sapere senza tempo di Ecate quando risvegliamo le memorie iniziatiche che risiedono in noi, nel buio sacro dei nostri corpi. Riserviamole un pensiero nelle notti buie, quando il suo abbraccio oscuro ci avvolge, sollevandoci nell’immensità della notte, dove ogni segreto è custodito. Connettiamoci a Ecate quando raccogliamo erbe medicinali, quando prepariamo infusi o pozioni. Ecate è la maga che vive in ciascuna di noi, il suo sapere antico viene tramandato di generazione in generazione da tempo incalcolabile. Lontanissima nel tempo, vicinissima dentro di noi, come il matriarcato, come il sapere segreto delle fiabe, come la magia naturale, come il gesto di raccogliere le radici per scoprirne i poteri.

Ecate ama la sue figlie, è benevola e terribile, come un farmaco può guarire o avvelenare, come il tasso offre ai suoi discepoli di accompagnarli in viaggi al di là del tempo, al di là di ogni confine. Il prezzo da pagare è la discesa nell’oltretomba, per conoscere il buio che c’è in noi. “Vinci la tua paura del buio” ci dice Ecate “Accetta di scomparire, di divenire tutta nera come la Luna, solo così potrai tornare a splendere. Il rinnovamento passa innanzitutto dalla morte. Fidati di me, tocca la mia mano e lascia che ti sollevi in volo attraverso questa notte. Una volta che sarai nella profondità più oscura vedrai la Terra da lontano e ne scoprirai la vera Bellezza. Seguimi, ti insegnerò i segreti delle stelle, delle radici, delle profondità nere dell’oceano. Nell’oscurità tutto è Uno. Lì puoi trovare ogni conoscenza. Il buio è il mantello che avvolge il mondo, è la parte interiore di ciascuno di noi. Scendi insieme a me nel tuo buio, dove si estende la saggezza infinita. La luce è meravigliosa, ma è il buio che le permette di esistere. Impara ad amarlo e i segreti della Notte diverranno anche i tuoi. Le mie chiavi schiudono le porte del tuo inconscio: seguimi, sarò la tua compagna quando incontreremo gli spettri che lo abitano. Anche gli spettri meritano amore e io sono la loro signora. Te li farò conoscere e imparerai a parlare con loro. Seguimi, vola via con me, non avere paura del tuo potere. La Luna c’è sempre, anche quando scompare. Ascolta la Voce del Buio.”

Il Tasso di Ashbrittle, che si stima abbia più di 3000 anni

Il Tasso di Ashbrittle, che si stima abbia più di 3000 anni

Bibliografia e sitografia:

-Monaghan P., Figure di Donna nei Miti e nelle Leggende (Dizionario delle dee e delle eroine), Red!, Milano 2004

-Il cerchio della Luna: http://www.ilcerchiodellaluna.it/central_Dee_Ecate.htm

-Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/Hecate#cite_note-67

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Full Moon Reflection: la Luce bianca della Verità interiore

Full Moon Reflection (Riflesso della Luna piena) è una delle essenze ambientali del repertorio alaskano scoperto da Steve Johnson. Raccontando la preparazione di questa preziosa essenza, Johnson scrive: “Questa essenza fu preparata in una fredda e limpida notte d’inverno, in un canyon che domina la baia di Kachemak nella zona centromeridionale dell’Alaska. Una ciotola d’acqua fu posizionata sulla neve in modo che potesse ricevere la luce diretta della luna piena, ma anche il riflesso della luce della luna sull’acqua della baia e del canyon bianco, colmo di neve.”

La Luna piena è un momento di allineamento cosmico, di grandissima energia purificatrice e di luce nelle tenebre, in cui il magnetismo della Luna influisce sulle acque del nostro pianeta e dentro di noi (il 70% della Terra consiste di acqua, proprio come il 70% del corpo umano). Il mare si gonfia, le piante stendono i loro steli verso il cielo, la Terra freme, ogni nostra cellula si connette all’energia crescente rispondendo con luce alla Luce, in una sinfonia di vibrazioni allineate a quelle della Luna, signora della notte, dama bianca che benedice e con i suoi raggi argentei rischiara le nostre parti più recondite, oscure, portando comprensione.

L’essenza ambientale caricata dell’energia di una Luna piena così potente, dei riflessi della neve e delle acque di un lago incontaminato, è un concentrato di luce offertoci per illuminare le nostre coscienze sognanti, espandendo la consapevolezza.

Quest’essenza ha un’azione molto particolare e importantissima in questo momento storico di grande accelerazione nella crescita spirituale: ci riconnette alla nostra Verità interiore, illuminando le parti più buie, ciò che giace non risolto sotto la superficie della nostra coscienza. Non appena questa luce bianca irrora le nostre cellule, si schiude per noi l’opportunità di lasciar andare quelle strutture inconsce che influenzano noi e gli altri senza che ce ne rendiamo conto.

Spesso, nelle relazioni con gli altri, proiettiamo inconsciamente le nostre paure e i nostri pregiudizi, pensando che la causa dei nostri fastidi e malesseri risieda nei comportamenti altrui. Così ci capita di attribuire agli altri la responsabilità delle nostre emozioni di rabbia o frustrazione, pretendendo che essi modifichino il loro comportamento o il loro modo di essere per farci stare meglio. Queste proiezioni, nell’ambito delle relazioni umane, possono raggiungere alti livelli di complessità, causando dolore e incomprensione. Vediamo errori e difetti negli altri, senza accorgerci che in realtà, come in uno specchio, ciò che stiamo criticando, ciò che giudichiamo male e che ci fa soffrire, in realtà è dentro di noi, e soltanto da lì, dal nostro cuore, può partire il processo di trasmutazione che attraverso l’accettazione, il perdono e il superamento porta allo sciogliersi dei nodi e alla trasformazione dell’energia negativa in Amore.

Il benessere delle relazioni, soprattutto quelle più strette, dipende grandemente dalla nostra consapevolezza dei pattern inconsci, questi copioni che continuiamo a recitare. Divernirne consapevoli, possibilmente insieme alle altre persone coinvolte nella relazione, è il primo passo verso la riconquista dell’armonia e verso una maggiore autenticità delle relazioni stesse.

Togliendo le maschere che indossiamo automaticamente, mostrando il nostro vero volto con un atto di libertà e consapevolezza profonde, guardando veramente l’altro per quello che è, senza proiettare su di lui i nostri fantasmi, ci può aprire un mondo di luce e onestà che prima non speravamo nemmeno esistere. Rompere i copioni che ripetiamo da una vita può risultare difficile, come difficile è identificare, smascherare le nostre proiezioni, distinguerle da ciò l’altro effettivamente è, o fa. Aspettative e pregiudizi sono programmi che abbiamo introiettato da lungo tempo per difenderci dall’immensità imprevedibile del mondo, e anche se ci fanno soffrire, siamo inconsciamente convinti che quel dolore sia un prezzo che va pagato, in cambio di protezione. Alla radice di tutto sta infatti la paura. Ogni giudizio nasce dalla paura di perdere se stessi, una paura che però è quasi sempre ingiustificata e che, anziché proteggerci, ci tiene prigionieri, riduce il nostro spazio vitale, soffoca il nostro respiro. E’ la paura dell’animale braccato che deve a tutti i costi sopravvivere, è un residuo biologico dei nostri copri antichi che oggi non ci serve più ma anzi ci impedisce di evolvere.

Full Moon Reflection porta tutta la luce della Luna piena e tutto il suo potere purificatore all’interno delle nostre cellule, illuminando le nostre coscienze e permettendoci di vedere chiaramente i pattern che governano le nostre relazioni, sostenendo il processo di rottura del copione e il riconoscimento del fatto che solo e soltanto noi siamo i responsabili delle nostre emozioni. Ciò che ci fa male negli altri non è che il riflesso di una ferita che si trova dentro di noi, e a noi spetta guarirla. Si tratta di un grande privilegio perché proprio attraverso questo processo di guarigione possiamo imparare la nostra lezione e crescere lungo il Sentiero.

Questa preziosa essenza ci sostiene nel fare luce sulle dinamiche delle nostre relazioni e può efficacemente essere assunta da entrambe le persone coinvolte in un rapporto che abba bisogno di chiarezza. Full Moon Reflection “può aiutare ad aumentare il grado di onestà e di rivelazione all’interno di una relazione, portando consapevolezza su tematiche irrisolte, che sono state reciprocamente soppresse e proiettate, così che possano essere risolte con una reciproca accettazione, comprensione e compassione.” (S.Johnson, L’Essenza della Guarigione)

E’ possibile unire l’azione dell’essenza all’energia delle notti di Luna piena, per celebrarne i poteri con una meditazione sulla luce bianca, lasciando che i suoi raggi portatori di comprensione e di Amore incondizionato pervadano i nostri corpi, armonizzando le nostre frequenze vibrazionali e aiutandoci a vedere con chiarezza, a guardare con il Cuore, a infrangere i copioni che continuiamo a ripetere da troppo tempo, forse anche da troppe vite. La Luna piena ci offre l’opportunità di uno sguardo lucido e sincero per comprendere i nodi karmici e scegliere di risolverli. Quest’essenza è pertanto anche una sorta di “facilitatore” karmico, che come uno strumento di precisione, al momento giusto, ci accompagna nel salto verso la luce.

Messaggio: “Apro la mia vita alla Luce della Verità; chiedo che nulla possa rimanere nascosto ad essa. Mi assumo la responsabilità dei miei sentimenti.”

Indicazioni: necessità di fare luce su un sentimento o su una relazione, bisogno di chiarezza nei pensieri e nelle emozioni, proiezione di pattern inconsci sugli altri, rifiuto di assumersi la responsabilità per ciò che si prova o che accade, dinamiche relazionali ripetitive, necessità di rompere il copione

Parole chiave: Verità interiore, onestà, comprensione, responsabilità, rottura del copione

Chakra attivati: IV, VII

Letture consigliate:

-Johnson S., L’Essenza della Guarigione, Bruno Galeazza, Bassano del Grappa 2011

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Celebrando Mabon, l’Equinozio d’Autunno

La festa celtica di Mabon cade annualmente tra i giorni 21 e 23 settembre, in corrispondenza dell’Equinozio d’Autunno, spostandosi leggermente da un anno all’altro poiché l’Equinozio è un punto astrologico che segue le oscillazioni della Terra sul suo asse. Quest’anno è oggi, 23 settembre, alle 8.22 del mattino, con la Luna crescente appena entrata in Capricorno e il Sole nel segno della Bilancia. L’Equinozio d’Autunno accade quando il Sole attraversa la linea dell’Equatore durante il suo apparente viaggio verso Sud, e noi facciamo esperienza di un giorno e una notte dalla stessa durata. Fino a Mabon, le ore di luce erano più numerose di quelle della notte, ma d’ora in avanti succede il contrario: il buio si allunga sempre più, stringendo il giorno in un abbraccio di nebbia o gelide stelle.

Mabon corrisponde anche con il cuore del tempo di raccolta, è un periodo in cui giorno e notte sono uguali e per il momento la natura è in equilibrio. E’ il tempo per raccogliere ciò che si ha seminato, per ringraziare del raccolto e dell’abbondanza che la Terra ci offre. E’ anche il tempo giusto per portare a termine vecchi progetti e per piantare i semi di nuove imprese, o per un cambio nello stile di vita. Mabon è il tempo in cui si celebra l’equilibrio. Non a caso siamo appena entrati nel segno della Bilancia.

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In queste giornate puoi guardare alle tue spalle, non soltanto l’anno passato, ma anche la tua vita, e puoi pianificare il futuro. L’anno si trova in bilico tra i due opposti e la Natura è in procinto di sprofondare nella sua ciclica morte sognante, ma ancora splende di frutti maturi e foglie dorate. Nel ritmo dell’anno, Mabon rappresenta il momento del riposo e del ringraziamento, della festa dopo il duro lavoro del raccolto. A tiepide giornate autunnali fanno seguito notti fredde, mentre il vecchio Dio Sole ritorna tra le braccia della Dea.

Il passaggio di Mabon è inevitabile, così come la morte del Dio Sole, che lento scivola verso le Terre d’Inverno. Un altro anno volge al termine. Mabon ci ricorda che ogni cosa ha una fine e quando le cose finiscono è il momento adatto per celebrare i nostri successi, accettare ciò che ci è stato concesso, fare il punto della situazione, ringraziare noi stessi e coloro che ci hanno aiutato, prendendo parte all’equilibrio e all’armonia della vita.

Sintonizziamoci con l’energia di Mabon, questo tempo di riflessione e di equilibrio, sentendo questo stesso equilibrio al nostro interno, concedendoci un attimo di riposo. Approfittiamo di questa giornata temporalesca per ritirarci dentro noi stesse, come chiocciole o come scoiattoli nelle loro tane piene di foglie croccanti. Passiamo in rassegna i frutti che stiamo raccogliendo e gettiamo un’occhiata ai semi che stringiamo nella mano, pronte ad affidarli alle cure di Madre Terra, perché il suo tepore sotterraneo li culli attraverso il sogno dell’Inverno, mentre si accumulano le energie per il germogliare di un’altra Primavera. Ascoltiamo la gratitudine espandersi da dietro il nostro sterno in tutto il nostro corpo, come un’onda calda di silenzio.

OM. Shanti. Shanti. Shanti.

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