Pino, la nascita del Cosmo

Nome:

Il nome del genere Pinus è di origine controversa, anche se pare plausibile possa derivare dal greco pitys, latino pinus, nomi che hanno tutti origine nel sanscrito pitu, resina. Altre ipotesi indicano che possa derivare dal latino pix, che significa “pece” o “resina”, essudato della pianta, o dagli epiteti di radice indoeuropea pic, pungere con riferimento agli aghi, oppure pi, stillare, sempre con riferimento alla resina; infine, forse dal celtico pen, testa, alludendo alla forma della chioma.

Esistono centinaia di specie di Pinus, ognuna con tratti essenziali ma tutte con alcuni aspetti di forma e carattere in comune. Le specie a cui faccio riferimento qui di seguito sono Pinus sylvetris L. (o Pino scozzese) e  Pinus pinea L. (o Pino domestico), diffuse la prima da Gran Bretagna e Irlanda fino alle montagne della Spagna e all’Asia orientale, la seconda tipica dell’area mediterranea. Entrambe le specie, in ogni caso, godono di un vasto areale di crescita, trattandosi di alberi in grado di sopravvivere anche in condizioni sfavorevoli e su suoli poveri. Uno dei tratti salienti del Pino, infatti, è la resistenza.

Altre specie diffuse sono Pinus halepensis MIll., Pinus nigra J.F. e Pinus pinaster Ait. (o Pinus maritima Lam.).

Aus: J. Sturm's Flora von Deutschland

Aus: J. Sturm’s Flora von Deutschland

Botanica:

Le Conifere detengono il record come una delle famiglie di piante più antiche, dirette discendenti delle foreste primeve che prosperavano sulla Terra molto tempo prima della comparsa delle latifoglie. Il Pino è un albero che può raggiungere altezze anche di 30 metri, a seconda del suolo in cui cresce, e che può raggiungere i 600 anni di età. La sua lunga radice fittonante gli permette di resistere ai venti forti.

Nelle foreste naturali, i Pini crescono piuttosto radi permettendo alla luce di penetrare e raggiungere il suolo, creando fasci di luce e una magica profondità.

Si ritiene fosse il Pino, all’interno della famiglia delle Conifere, la specie prevalente nel Periodo Boreale, al termine dell’Era Glaciale.

Le foglie del Pino crescono in coppie, e questo lo distingue dal Tasso e dall’Abete, le cui foglie singole sono disposte a spirale lungo i rami; e dal Larice, le cui foglie crescono a ciuffi.

Quando i giovani Pini crescono, i loro rami più bassi cadono dando luogo al caratteristico tronco dritto e spoglio incoronato di rami, aghi e pigne.

Se il Pino si trova in uno spazio aperto e ben illuminato inizierà a riprodursi dopo 20 anni. Se l’albero si trova invece in un suolo paludoso o circondato da numerosi altri alberi aspetterà, per dare inizio alla riproduzione, fino ai 40 anni.

Spesso ai Pini piace crescere in compagnia della Betulla. Entrambi gli alberi condividono la simbiosi con il fungo Amanita muscaria. Anche altri funghi, quali il Boleto, amano la compagnia del Pino, che provvede inoltre cibo e riparo per molti animali selvatici come volpi e scoiattoli, e uccelli come il regolo dalle piume verde oliva.

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La corteccia del Pino è di colore rosso ramato, soprattutto in alto, dove è sottile, liscia e luminosa. Alla base dell’albero invece può diventare spessa, scura e ruvida.

Durante la crescita annuale del Pino ogni nuovo getto somiglia a una candela che cresce verticalmente verso il cielo. Al termine di ogni ramo cresce una grossa gemma resinosa avvolta da scaglie rosa e brune coperte da resina biancastra. In primavera la gemma si allunga e le scaglie cadono una ad una rivelando coppie di foglie, gli aghi, che si dividono a partire dal vertice. I rami crescono da gemme poste in cerchio al di sotto della gemma apicale.

Gli aghi del Pino sono rigidi, piatti in alto e cilindrici in basso. Sono di colore verdeblu e il blu deriva dallo strato di cera che cresce naturalmente sul fogliame. Le foglie di Pino vivono fino a tre anni e poi cadono ai piedi dell’albero, rimanendo sempre in coppie. Gli aghi appena nati sono verdi, ma diventano verdeblu nel giro di una stagione. La forma degli aghi permette al Pino di conservare l’acqua limitandone la perdita. Questo significa che il Pino non dipende troppo dall’umidità del suolo e può pertanto crescere in suoli sabbiosi.

All’inizio della primavera il Pino produce sia fiori maschili che fiori femminili (monoico). I fiori  maschili sono gialli e soffici e crescono alla base dei nuovi getti. Ogni fiore è formato da stami disposti a spirale e ogni stame sostiene due sacche polliniche. Il polline del Pino è estremamente abbondante e quando viene disperso nell’aria ogni cosa intorno si ricopre di una polvere gialla. Ogni grano di polline ha una sacca d’aria su su ciascun lato, e questo gli permette di volare. Non appena hanno rilasciato il polline i fiori maschili muoiono e cadono dall’albero.

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Il fiore femminile è minuscolo, rosso, e somiglia a una gemma che cresce in cima al nuovo getto. E’ costituito da scaglie appuntite, rosse e carnose disposte a  spirale. Il fiore femminile cresce su una specie di piedistallo e si piega verso l’alto in modo che il polline possa scivolare tra le scaglie e raggiungere gli ovuli alla base. Gli ovuli emettono una sostanza mucillaginosa che cattura e porta giù il polline. Dopo che la fecondazione è avvenuta le scaglie si ispessiscono e vengono sigillate dalla resina.

Per la primavera seguente, il fiore femminile si è fatto più grosso, ma è solo verso la fine della seconda estate, o anche nella primavera seguente, che le scaglie si aprono al tepore dell’aria rivelando piccoli semi marroni. Questi semi sono dotati di un’ala delicata e quando si staccano dal cono sono catturati dall’aria e viaggiano ciascuno verso la propria destinazione, fermandosi alcuni abbastanza vicino alla pianta madre, altri molto più lontano.

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Le pigne si aprono o si chiudono a seconda del tasso di umidità dell’aria. Si aprono solo quando il clima è secco così che i semi alati possano disperdersi e non piombare ai piedi dell’albero  madre per via dell’umidità. Le pigne vuote cadono dai rami in autunno, a volte dopo due anni e mezzo. Su uno stesso Pino si possono trovare fino a tre generazioni contemporaneamente, anche sullo  stesso ramo, dove le pigne nuove, quelle fertilizzate e le pigne vuote stanno appese una dietro l’altra.

L’epifisi, o ghiandola pineale, fu chiamata così da Cartesio per via della sua forma, che ricorda quella del frutto del Pino. L’epifisi regola il ciclo sonno-veglia del nostro organismo grazie alla produzione dell’ormone melatonina, e reagisce agli stimoli di luce e buio. Secondo la filosofia indiana, la ghiandola pineale è connessa al nostro settimo chakra, quello che si apre in cima alla nostra testa collegandoci al Cosmo e ai suoi ritmi.

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Mitologia e storia:

Il Pino è governato dall’energia di Saturno, che rappresenta l’archetipo del Padre e dell’Eremita, di colui che contiene, regola, dona forma e struttura, sorregge.

Nella mitologia il Pino è l’albero in cui viene trasformato Attis, protagonista insieme a Cibele di una delle storie più intricate del mondo mitologico, ma anche più potenti. Il modo in cui lo sentivano gli antichi ci dice molto sulla sua energia. Il mito di Attis è antichissimo, rappresenta movimenti primordiali inconsci e risale ai tempi in cui dio era una donna, la Grande Madre Terra. Riporto qui di seguito un brano tratto dal “Mitologia degli alberi” di Jacques Brosse, un libro bellissimo. Brosse spiega:

“(…) Questa storia comincia con quella di sua madre Cibele. Da una pietra fecondata dal seme che Zeus aveva lasciato cadere sulla terra durante il sonno nacque un mostro ermafrodita di nome Agdistis. Spaventati, gli dei decisero di castrarlo e così Agdistis diventò la dea Cibele. Il sangue sparso fece spuntare dalla terra un mandorlo, o un melograno. Mangiando una mandorla, o mettendosi in seno una melograna matura, proveniente dall’uno o dall’altro di quegli alberi, la figlia del fiume Sangario, Nana, rimase incinta e concepì Attis. Vergognandosi di quel figlio che non aveva padre, Nana lo abbandonò in riva al fiume dove una capra lo nutrì. Fu lì che Cibele-Agdistis lo rinvenne in mezzo alle canne. Crescendo, il fanciullo divenne così bello che Agdistis se ne innamorò. Ma, sia che egli volesse sfuggire a quell’amore incestuoso sia che i suoi genitori preoccupati (ma di quali genitori poteva trattarsi?) lo mandassero lontano, fatto sta che il giovane arrivò a Pessinunte, dove doveva sposare Atta, la figlia del re. Mentre si celebravano le nozze, Agdistis, che inseguiva il suo amato, entrò nella sala del banchetto. Immediatamente, l’assemblea è colta dalla follia: il re si mutila, Attis fugge, si castra sotto un pino e muore. Agdistis, disperato, tenta di resuscitarlo, ma Zeus si oppone e acconsente solo a che Attis, trasformato in pino, rimanga sempre verde e incorruttibile, quindi immortale; gli unici segni esteriori di vita in lui saranno la crescita dei capelli e l’agitarsi del mignolo. Alcuni autori aggiungono che Cibele avrebbe portato il pino nella sua caverna per piangere il figlio, scena che veniva raffigurata nelle feste in onore di Attis. Un’altra versione della morte del dio, riferita da Pausania… (…)

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In questa matassa così intricata che non si sa più chi è chi, dobbiamo adesso tentare di sbrogliare i fili. Si sarà certo notato che essa contiene almeno un fattore già noto, l’abbandono del dio da parte della madre all’atto della nascita, elemento già rilevato nell’infanzia di Dioniso e dello Zeus cretese, con i quali Attis ha un altro punto in comune: è nutrito da una capra. L’abbandono è caratteristico delle divinità maschili dell’albero, generate dalla Terra Madre, che si chiamino esse Rea o Semele o Cibele. Quest’ultima, però, ci è presentata qui come prodotta dalla castrazione di un essere in origine ermafrodita, amputazione originaria che appare per questo contagiosa. Anzi, essa costituisce addirittura il motivo essenziale del mito.

Queste mutilazioni in serie non hanno tutte lo stesso significato. Cbele è in Frigia la Grande Dea, la Terra Madre, equivalente in Grecia di Gea e di Rea. Nella teogonia greca, come in altre teogonie, la divinità primigenia è necessariamente bisessuata, perché genera da sola, estrae da sé e senza aiuto gli altri dei e il mondo, che sono suoi figli E’ “la totalità primordiale, che racchiude tutte le facoltà, perciò tutte le coppie di opposti”. Perciò, quando Gea emerge dal Vuoto, dal Caos primordiale, insieme a lei nasce l’Amore, che qui è il desiderio di generare, di creare altri esseri. E Gea mette al mondo “un figlio simile a sé, Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno”. Nei termini utilizzati da Esiodo, troviamo la figura originaria, il prototipo delle dee che generano un figlio affinché diventi il loro amante, padre dei loro futuri figli, appunto perché quel figlio non ha, non può avere, un padre. IN origine la divinità è sola. Il suo atto creativo è bipartizione di sé, bipartizione che può essere intesa come automutilazione.

Così è stato, all’origine dei tempi, per Cibele nella mitologia frigia. Se, nella versione greca della leggenda, sono gli dei che decidono di castrarla, ciò dipende solo dal fatto che i Greci, avendo interrato Cibele nella loro mitologia, l’hanno posta alle dipendenze degli dei dell’Olimpo. Nella cosmogonia primitiva è la stessa Cibele che, essendo sola, si castra, e il prodotto di tale mutilazione altro non è che la Creazione..

La nascita di Cibele conseguente alla spargimento del seme di Zeus sulla pietra rappresenta peraltro una forma assolutamente arcaica della cosmogonia: “la roccia è il simbolo più antico della Terra Madre” e “la pietra grezza è considerata androgina, laddove l’androginia restituisce la perfezione dello stato primordiale”. IN quanto roccia, Cibele è vuota, come il ventre di una madre, è una caverna. Sotto terra, in una grotta, si compiono i suoi riti segreti. La caverna primordiale dalla quale vengono alla luce gli esseri viventi è anche il luogo dove si sotterrano i morti; i morti vi entrano e i vivi ne escono. E’ un microcosmo che riassume un macrocosmo, in cui il suolo corrisponde alla Terra e la volta corrisponde al Cielo, è il serbatoio tenebroso delle energie telluriche, il santuario ctonio. Dalla roccia, androgina e sterile, nasce la terra (femminile), risultato del sua sfaldamento, dal quale soltanto possono nascere e crescere i vegetali che la renderanno fertile mediante l’humus, nato a sua volta dalla decomposizione delle loro foglie. Nelle mitologie, lo stato primigenio della vita sulla terra è rappresentato dall’associazione della roccia con l’albero. La pietra sacra, venerata come “casa di Dio”, centro, ombelico del mondo, come a Delfi l’omphalos, è sede della potenza divina, ricettacolo della vita non ancora manifesta, della quale espressione prima è l’albero cosmico. L’albero appare come figlio della pietra.”

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Dietro al Pino ci sono queste energie: energie legate all’impulso primordiale d’amore che ha portato alla nascita del Cosmo. Il mito ce lo mostra legato alla Madre Terra, e all’unione primordiale degli opposti, maschile e femminile. Il Pino è infatti un albero ermafrodita, e una delle specie più antiche presenti sulla Terra. Non c’è da stupirsi che gli antichi lo vedessero come simbolo dell’amore tra madre e figlio, divenuti amanti, in un cerchio che può venire spezzato soltanto dall’estremo sacrificio, la morte, che però genera vita immortale.

Nella versione greca, Agdistis, il dio-pietra ermafrodita, è un presentato come una creatura mostruosa, che Zeus amputa per disgusto. Questo era infatti come la società patriarcale rappresentava la Grande Dea delle religioni del Neolitico. La sua potente femminilità spaventava terribilmente i Greci, così come le altre società patriarcali dell’epoca, che sottomisero la civiltà matrifocale diffusa nella Vecchia Europa. Perciò la dipinsero come un mostro.

In realtà però, al di sotto della maschera, possiamo ancora leggere parti di una vicenda sacra, che rappresenta l’eterno rinconrrersi ed amarsi del principio maschile e di quello femminile presenti entrambi in ognuno di noi, dell’irresistibile impulso alla creazione che nasce da dentro e che per nascere ci chiede il sacrificio di una parte di noi, per poi riunirci nuovamente, in un’altra forma.

Il ritmo di questa storia ricorda una spirale, e il Pino, col suo tronco che si staglia verso il cosmo e la sua radice fittonante che penetra nelle profondità della Terra, è il simbolo saturnino di forze potenti e contrapposte, che in lui si fondono in un’alchimia purificatrice che dà luogo alla resina, il pianto di luce del Pino, la sua essenza cosmica.

I cicli biologici del Pino seguono ritmi lenti, planetari, e sui suoi rami più generazioni di frutti vivono una accanto all’altra, impregnandosi di informazioni cosmiche.

Fitoterapia:

L’olio essenziale di Pino è contenuto in numerose specialità fitoterapie. La parte della pianta utilizzata è costituita dalle foglie aghiformi, che nella medicina popolare venivano usati per fomente, mettendoli nell’acqua bollente o addirittura nell’acqua calda del bagno. L’essenza sprigionata infatti, pur esigua come quantità, penetra facilmente attraverso la cute dove esplica un effetto balsamico, fluidificante le secrezioni, sedativo della tosse e antinfiammatorio.

Il Pino e i suoi derivati sono utilizzabili in virtù dei suoi numerosi costituenti chimici, rappresentati sostanzialmente dall’olio essenziale, ricco in monoterpeni: alfa-pinene, beta-pinene, limonene, acetato di bornile, 1.8 cineolo (eucaliptolo) e canfene.

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Può essere utilizzato nella cura di molte patologie dell’apparato respiratorio (i polmoni dentro cui penetra l’aria, collegandoci al respiro del Cosmo), in particolare in tutte quelle forme croniche per le quali vi sia la necessità di fluidificare le secrezioni catarrali (otiti, rino-sinusiti, bronchiti, asma bronchiale, bronchiectasie).

L’olio essenziale, anche se diluito, nelle preparazioni galeniche deve essere utilizzato con estrema attenzione, o prescritto dal medico (come tutti gli oli essenziali per via interna). Altrimenti è reperibile in numerosi prodotti fitoterapici in commercio.

E’ possibile utilizzarlo per suffumigi, aerosol (opportunamente emulsionato con una soluzione fisiologica), o miscelato a un olio vegetale, per massaggi sullo sterno.

La resina e gli aghi di Pino, bruciati, purificano l’aria dell’ambiente, sia su un piano fisico, disinfettandola, sia su un piano energetico. Lo stesso vale per l’olio essenziale.

Nel repertorio di essenze floreali di Bach, Pine è il fiore dell’autostima, che aiuta a superare sensi di colpa ingiustificati e la convinzione di non meritarsi di essere felici. Tutti meritiamo di esserlo, perché la felicità è la stessa energia che ci costituisce, alla sua frequenza più elevata.

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L’energia del Pino:

La voce del Pino è facile da sentire – è come un bellissimo pianto di luce, lungo, che collega la Terra al Cielo. Eppure il suo messaggio ha impiegato molto ad arrivarmi. Ha dovuto emergere da luoghi bui dentro di me, da memorie antiche.

Una volta, a una conferenza, Igor Sibaldi disse che ciò che è molto lontano nel tempo, in realtà è vicinissimo nel nostro inconscio. Questa frase ben rappresenta il Pino: archetipo espresso in una forma primordiale, simbolo di un processo che sta all’origine del Cosmo così come di ognuno di noi.

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Il Pino è l’immortale amore della madre per il figlio, e con questo si intende una forma di amore talmente pura da non rientrare in nessuna categoria, un amore al di là e prima di qualsiasi regola, identificazione tra dio e creato, che supera la morte e ogni differenza. Il Pino ricorda anche il dolore lacerante all’origine dell’Amore, e lo purifica, distillando una resina trasparente che è come luce solidificata, informata di messaggi akashici, antichissimi, che da miliardi di ere attraversano il Cosmo.

Il Pino li distilla dalla sua natura, di terra e di pietra, e li trasmette alla Terra, informandola della saggezza del Cosmo. Così quest’albero è un canale tra luce e buio (e il suo frutto somiglia all’epifisi, la ghiandola che regola il ciclo di luce e buio all’interno dei nostri corpi, apertura fisica al Settimo chakra), un essere vivente che supera la sua individualità, confondendosi con gli elementi.

L’energia emessa dal Pino è molto forte e primordiale. Ci collega alle lontananze cosmiche spalancate dentro di noi, ci aiuta a superare le dualità tra la nostra parte femminile e quella maschile, trovando nel nostro cuore nostra madre e nostro padre, rendendoci conto che i nostri genitori non siamo che noi stessi, che noi siamo i nostri stessi figli, e amanti. La danza cosmica ci proietta in mille direzioni e come scintille di un fuoco ci separiamo per poi incontrarci di nuovo e tornare a far parte di un’unica fiamma.

Osservare con gli occhi dell’Anima il Pino ci mostra come si esprime l’energia primordiale.

La sua enorme potenza è incanalata, contenuta per produrre geometrie precise: gli aghi, la pigna, la corteccia. La resina è energia primordiale purificata, elevata alla sua massima potenza dal fuoco nato dall’attrito tra il desiderio di espansione e il principio di contenimento. Così è in effetti la natura di ogni atto creativo, e il Pino ce ne rende visibile una forma intrisa di luce vibrante.

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Bibliografia:

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